Stefano Sgambati è un giovane scrittore. Attualmente si occupa di letteratura, tv e giornalismo ed è uscita da poco la sua ultima opera per Mondadori. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la sua storia di padre, così diversa da quelle a cui siamo abituati.
Il merito innegabile di Facebook, tra i tanti difetti emersi in questi ultimi anni è, e rimane, quello di non dimenticare nulla di quanto pubblicato, di lasciare tracce a disposizione di chiunque abbia l’intenzione di andare a ritroso nel tempo a ritrovare persone, volti o anche semplici storie e contenuti.
Ecco, questa storia comincia proprio da qui, da un viaggio a ritroso agli albori del social network, in quell’era digitale in cui le pagine e i profili da seguire si contavano sulle dita di una mano.
In quegli anni primordiali dove uno sparuto gruppo di pionieri iniziava a sperimentare e a misurare il potenziale dello strumento, la mia attenzione cadde su una pagina con un termine romanesco come nome: noantri, diretta espressione su Facebook di un omonimo blog, definito dagli stessi autori come un “contenitore online di contro informazione e intrattenimento”. All’interno di questo contenitore si trovavano una serie di editoriali sui temi idealismi & politica & attualità. Da buoni romani quali erano gli autori, non potevano mancare editoriali appassionati, ma nient’affatto banali, sullo sport principale praticato e parlato nella capitale, con equa rappresentanza di entrambe le compagini calcistiche.
Long form, temi impegnati affrontati con un misto di idealismo, serena rassegnazione e un filo di sarcasmo nel raccontare sia le vicende politiche che le proprie: “noantri” era il blog di opinione con tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento, se solo fosse uscito qualche anno più tardi. Troppo avanti per i tempi, forse troppo raffinato per una platea di utenti che ancora cercava di rispondere alla domanda “a cosa stai pensando?”.
Tra gli autori di noantri spiccava tale Stefano Havana, uno pseudonimo dietro al quale si celava Stefano Sgambati.
Napoletano di nascita, romano da sempre e milanese da poco, Stefano è oggi uno scrittore – il suo ultimo romanzo La bambina ovunque è edito da Mondadori, un editorialista per svariate testate nonché autore televisivo.
Dieci anni – e qualcosa in più – dopo, in una caffetteria lungo il Naviglio di Milano ho dato forma e voce a quel ragazzo dalla passione “atroce e irreversibile” per la scrittura.
Stefano, ti ho lasciato dieci anni fa come un blogger la cui passione per la scrittura era “la più atroce e irreversibile che avessi”. È ancora così?
«C’è una parte di me che ha un’esigenza espressiva mostruosa, sorta fin da bambino.
La parte che ha a che fare con la scrittura è una parte disagiata sia perché mi ritengo insoddisfatto cronico, sia perché credo che la mia ambizione sia decisamente superiore al mio talento.
Esiste però una seconda parte, quella che non riguarda la scrittura, dove invece trovo la pace e dove coltivo i miei hobby. Uno di questi è la cucina. Anche lì ho accarezzato il desiderio di diventare il miglior cuoco dell’universo, ma non essendo questo hobby diventato un lavoro sono riuscito a calmierare questa cosa e a farlo diventare un gioco.
È solo mentre cucino, per la famiglia o per gli amici, che comprendo quanto potrebbe essere bello scrivere se la scrittura non fosse diventata la mia professione».
Tu sei romano trapiantato a Milano. Come si è snodata la tua carriera e il tuo passaggio da una capitale ad una di fatto?
«Roma era diventata una gabbia insostenibile per me. È una città che ti costringe a vivere nel tuo quartiere a meno che tu non abbia voglia di intraprendere un vero e proprio “viaggio” per spostarti in un qualunque luogo.
Ho conosciuto quella che poi è diventata mia moglie a Roma, ad una presentazione dove ero relatore di un libro intitolato “Non ci volevo venire qui”. Effettivamente nemmeno lei ci voleva venire lì e venne trascinata da un’amica. Era nella Capitale per un lavoro che a breve avrebbe mollato per un altro con destinazione Milano.
Dopo un paio di anni di continui viaggi andata e ritorno decisi anche io di mollare gli ormeggi e lasciare Roma in direzione Milano. Da quel giorno la qualità della mia vita ha decisamente svoltato verso il meglio. A Milano la gente come me che lavora e che per scrivere va a sedersi in un locale non viene considerata alla stregua di un rapinatore di banche ma esattamente per quello che sta facendo».
Come si è sviluppata la tua carriera?
«Nella mia memoria identifico due momenti ben distinti della mia vita, momenti che hanno sancito il mio rapporto imprescindibile con la scrittura. In quinta elementare, senza aver mai lasciato presagire qualsivoglia passione o talento per la cosa, la maestra ci diede come compito il classico tema libero. Io mi ritrovai a scrivere di un film che avevo visto qualche tempo prima e che aveva come protagonisti dei ragazzi che costruivano nella cantina di casa una navicella spaziale con dei bidoni di plastica riuscendo poi a farla decollare. Ripresi quella storia e scrissi un tema favolistico dove sviluppavo quell’argomento. Ricordo distintamente il piacere che provai in quelle tre ore in classe dove scrissi quel tema. Poi per anni non ho più ripreso la cosa.
A quasi 17 anni tornai a scrivere per motivi prettamente calcistici – allora ero malato di calcio, con un’insana passione per la Lazio – e scrissi un pezzo di una tragicità commovente perché la squadra per cui tifavo era stata eliminata dalla coppa Uefa in un modo che potrei definire shakespeariano. Al tempo questa cosa mi procurò un dolore enorme e io, per sublimare tutta quella sofferenza, cominciai a scrivere. Da allora non mi sono più fermato iniziando a instaurare varie collaborazioni.
Ho puntato tutte le mie carte sul mestiere di scrittore quando, nel 2015, all’uscita del mio primo romanzo “Gli eroi imperfetti”, ho promesso a me stesso di riuscire a vivere di scrittura entro 10 anni. Ora ne sono appena passati quattro, il mio secondo romanzo è pubblicato da Mondadori – la stessa casa editrice con cui pubblicherò anche il prossimo -, quindi forse la strada che sto perseguendo è quella giusta.
Una volta mi chiesero quale potrebbe essere il consiglio migliore da dare a un ragazzo che vuole intraprendere la carriera di scrittore. Io risposi che l’unico suggerimento che potevo dare era quello “di trovarsi una donna ricca – o un uomo facoltoso” perché l’editoria è l’unica industria che immette sul mercato un prodotto, il libro, che poi apparentemente fa di tutto per auto-boicottare, per non venderlo. Questa, almeno, è l’impressione che se ne ricava.
Purtroppo è un settore in cui nemmeno gli editori a volte sembrano crederci. Per avere anche solo una minima chance di successo è l’autore che deve credere fino in fondo alle potenzialità del suo libro e a mettersi in gioco in prima persona per far sì che il suo libro venga letto, conosciuto, divulgato, venduto».
In una precedente intervista hai affermato come la letteratura non può scaturire dalla felicità, che si aggiunge un po’ al tuo bisogno di scrivere.
«La letteratura non è un Moment Act o una tachipirina contro il malessere generale della gente. Al contrario, la letteratura deve scaturire proprio da lì, da quel malessere: deve metterti nelle condizioni di porsi delle domande, creare un mondo nuovo non sempre e non certo piacevole da abitare e poterlo confrontare con quello reale. Questo non vuol dire che uno scriva perché ha i demoni nella testa: io ad esempio adoro scrivere con il sole di fronte, seduto nel mio bar preferito e con una birra sul tavolo.
«La letteratura non è un Moment Act o una tachipirina contro il malessere generale della gente». Stefano Sgambati
Con il tuo ultimo libro “La bambina ovunque” racconti dal punto di vista del padre il tema del desiderio di genitorialità. Nel libro il protagonista Stefano, un romano trapiantato a Milano – esattamente il tuo alter ego letterario – è sposato con una “biondina conosciuta al Pigneto” e aspetta una bambina. Questa attesa è il risultato di un percorso fortemente travagliato, cominciato da un forte desiderio di maternità della moglie e contrassegnato dalla necessità di ricorrere alla fecondazione assistita. Cito dal tuo romanzo: “Anche un padre aspetta un figlio, ma, all’opposto di una madre, non percepisce i movimenti fetali, non perde per un istante il respiro mentre capisce che un altro essere vivente lo abita, poiché nessuno lo abita: in un padre non c’è posto. Non sente la vita che arriva: se la ritrova”. Il tuo libro, quindi, racconta la storia di un padre che deve arrivare a patti con l’idea di essere diventato effettivamente tale. Un tema, tra la folta bibliografia che affronta il tema della paternità, non certo usuale…
“La bambina ovunque” nasce effettivamente da questa considerazione. Tutto è nato da una serie di appunti che prendevo fin dai primissimi giorni dalla nascita della mia bambina, giorni nei quali io mi sentivo lontanissimo da quella che doveva essere l’idea di papà che tutti si aspettavano che fossi.
Non ero entusiasta, non riuscivo a provare un sentimento per questa bambina se non quello costruito dalle pressioni sociali e questo aspetto mi spaventava per il timore che non sarebbe più cambiato o evoluto. Mi è parso che tutta questa serie di appunti che avevo annotato per descrivere il mio stato d’animo avessero piano piano costruito un personaggio, che di fatto era il sottoscritto, e che poteva essere interessante raccontarlo.
Oggi sono sceso a patti con il fatto di essere padre e ora sono il classico papà rimbambito e innamorato della propria figlia. Lo sono diventato quando la bambina ha cominciato a parlare, a verbalizzare, a non essere più solo un cucciolo.
Ho capito che mia figlia era un esserino a cui avevo contribuito anche io, anche se in minima parte, a farla nascere quando è nato il rapporto tra me e lei.
Nel momento in cui lei ha manifestato tutte queste cose mi si è aperta una porta percettiva, che si è ulteriormente amplificata da quando lei ha imparato a manifestare i suoi desideri scoprendo di poter ottenere quello che vuole. Ecco, scoprire tutta questa complessità mi ha spalancato un mondo, mi ha fatto diventare il padre che sono tutt’ora.
Ho amici intorno a me che davanti alla pancia della moglie manifestano ulteriori e infiniti desideri di paternità. Io mi sono semplicemente chiesto come avrei fatto ad arrivare a quel rimbambimento totale che un padre ha nei confronti della propria figlia, cosa che poi è avvenuta. Ho cercato di raccontare a modo mio questo percorso».
«Ho amici intorno a me che davanti alla pancia della moglie manifestano ulteriori e infiniti desideri di paternità». Stefano Sgambati
L’altro protagonista del tuo libro è, più o meno direttamente, tua moglie. Come ha reagito all’idea di un romanzo che avesse come tema principale la sua gravidanza?
«A lei ne ho parlato pochissimo perché sentivo che stavo facendo una cosa che poteva non piacerle. Tuttavia non ho mai pensato che il suo gradimento potesse essere decisivo nel proseguire o meno nel mio romanzo.
Una cosa che ho imparato quando si vuol fare letteratura “auto fiction” seria è che il pudore è la prima cosa da mettere da parte. Anche se lei mi avesse espresso una sua contrarietà alla mia idea di scrivere un libro sulla nostra esperienza io lo avrei scritto comunque, e lei questa cosa l’ha sempre saputa.
La parte centrale del romanzo, quella che parla del ricorso alla fecondazione assistita con tutti gli annessi e connessi, è una parte che io le ho nascosto fino all’ultimo secondo. Tuttavia il mio è un libro che è un atto d’amore nei suoi confronti e che ho dedicato a lei. E a lei è piaciuto. Solo che quando lo ha letto si è resa conto che avevamo vissuto, dello stesso periodo, due esperienze completamente diverse».
Se dovessi pensare al futuro come inquadreresti te stesso, come padre e come scrittore, tra dieci anni?
«Come padre penso di essere fregato fin da ora. Credo di essere schiavo di questo amore, di questo sentimento in cui mia figlia potrà fare qualunque cosa e io riuscirò sempre a giustificarla. Detto questo, sono molto curioso di vedere lei crescere come donna. Per certi versi non vedo l’ora di vederla già trentenne perché ignoro come possa trasformarsi questa bimba che ho davanti oggi che veste con le felpe a cuoricino. Per me è un mistero inquietante da una parte, ma dall’altra non vedo l’ora che succeda.
Come autore spero solo di essere schifosamente ricco (ride, ndr.), di vivere in un attico e di far parte di quell’élite che il popolo odia. Dubito che andrà così, ma ho molta fiducia nel futuro. Perché credo che la scrittura sia la mia unica, vera storia d’amore.
Articolo: Mauro Farina Fotografie: Martina Padovan