Ritu Dalmia, originaria di Calcutta, non è solo una chef, ma è stata conduttrice di programmi televisivi di cucina e ha lottato per la depenalizzazione del reato di omosessualità in India. Oggi, però, vuole di più.
Quando ci salutiamo a intervista conclusa, Ritu Dalmia mi abbraccia e – quasi scusandosi – mi dice «I’m a storyteller». Di storie, durante le oltre tre ore trascorse insieme, me ne ha raccontate tante, è vero. Ci siamo date appuntamento nel suo primo ristorante milanese, Cittamani; al nostro tavolo si sono uniti diversi amici, abbiamo mangiato, riso, chiacchierato, Ritu ha persino ‘scomposto’ e mischiato al posto nostro i tanti piattini che componevano il pranzo per spiegarci come mangiarli correttamente.
Non capita spesso di incontrare qualcuno e di ‘sentirsi a casa’, travolti dall’entusiasmo, dalla parlantina e dallo humour del proprio interlocutore: lei, chef da ben ventisei anni, ne fa una questione di affinità elettive tra indiani e italiani. «Gli indiani vanno pazzi per il cibo italiano e per l’Italia, per le molte similitudini gastronomiche e attitudinali. Partiamo col cibo: anche noi indiani abbiamo il marzapane, le panelle, la farinata di ceci, utilizziamo tanto i legumi la verdura… Il cibo italiano poi, soprattutto al sud, ha risentito delle stesse influenze arabe a cui è stato esposto il cibo indiano. In merito invece all’attitudine, prendi noi due: ci siamo conosciute adesso, ci siamo piaciute, probabilmente ci rivedremo in futuro e non sarebbe affatto strano se io ti invitassi a cena a casa mia o viceversa.
In India è lo stesso, c’è la medesima generosità d’animo: in altri Paesi puoi conoscere una persona da dieci anni, eppure continuerai a incontrarla esclusivamente al ristorante e a rimanere nel compartimento ‘vita lavorativa’, senza mai uscire da lì. Ho vissuto quattro anni a Londra e l’ho detestata: gli amici mi chiamavano per fissare una data in cui vedersi con tre settimane d’anticipo… Io non so nemmeno se domani sarò viva, figurati! In Italia è totalmente normale ricevere una telefonata di un’amica che verso sera ti chiede se ti va di prendere un aperitivo: non c’è nessun problema qui e non ci sarebbe nessun problema in India, nel resto del mondo invece è impensabile. Gli indiani amano il caos e l’assenza di sovrastrutture che ci sono in Italia, perché loro stessi sono caotici e non strutturati».
D’altronde pure la nostra conversazione viene ribaltata e in un certo senso de-strutturata: quando domando a Ritu Dalmia di narrarmi la sua storia personale, lei decide di spiazzarmi con una domanda, «Quanti anni pensi che io abbia?». Pessima in matematica, impiego troppo tempo a rispondere e vengo incalzata: «Ne ho quasi 47, credi che siano abbastanza per avere una storia da raccontare? Per me no, la storia deve ancora essere scritta, per ora abbiamo solo il primo capitolo: non voglio parlare di ciò che può essere facilmente trovato online e del passato, bensì del presente, che è molto più interessante».
Non voglio tradire le sue intenzioni, dunque sarò breve: Ritu Dalmia, originaria di Calcutta, è una donna di successo nonché personalità di spicco della vita culturale indiana; dichiaratamente omosessuale, in patria si divide tra il gruppo Diva Restaurants (con otto locali, uno diverso dall’altro) e una fiorente attività di catering di lusso per vip e tycoon.
È stata conduttrice di due programmi di cucina immensamente popolari sulla TV nazionale – Italian Khana e Traveling Diva su NDTV Good Times – da cui sono stati tratti tre libri di cucina, Italian Khana, Traveling Diva – Recipes from around the world e Diva Green. L’amore di Ritu Dalmia per l’Italia e per il cibo italiano l’ha portata ad aprire a Milano rispettivamente il ristorante indiano Cittamani nel 2017 e Spica, formula più pop che propone cucina etnica proveniente da tutto il mondo, lo scorso luglio.
Questo però era ieri. Oggi Ritu Dalmia è in fermento, vuole altro, vuole di più. «Al momento la mia vita è nel bel mezzo di un cambiamento: un bel cambiamento, per certi versi ‘spirituale’ e molto eccitante. All’improvviso ho riscoperto la mia giovinezza e trovato una nuova energia dentro di me, per cui ora vorrei conquistare il mondo. Sono sempre stata una one-woman-show: non avere il totale controllo e affidarlo ad altri è stato molto difficile, ma nell’ultimo anno e mezzo ho capito che se voglio ottenere qualcosa di buono, non posso fare tutto. Così, per la prima volta mi sono ritrovata con parecchio tempo a disposizione, senza sapere – almeno all’inizio – cosa farci: dato che la mente oziosa è il laboratorio del diavolo, ho deciso di guardare ad altri Paesi, espandermi, aprire un mio ristorante in Europa».
Il suo essere in perenne movimento, spiega, non ha a che fare con l’ambizione «o col desiderio di creare un impero, ma col problema di fondo che ho con la noia: ebbene sì, mi stufo facilmente, e se non mi tengo occupata rischio di impazzire. Il denaro non c’entra, anzi, vorrei c’entrasse: non indosso gioielli, non trovo mai vestiti della mia taglia, non so guidare, non so nemmeno andare in bicicletta… Quindi a che mi servirebbero più soldi?». Lei ne fa una questione di ricerca di attenzioni: «non mi piace ammetterlo, ma adoro ricevere la classica pacca sulla spalla. È emozionante e al tempo stesso spaventoso, perché quando cominci ad apprezzarla e ti viene tolta, è parecchio doloroso: chiunque lavori in un campo creativo sperimenta una condizione simile, in cui raggiungi un obiettivo, il pubblico applaude, poi cadi. Ora sto lavorando proprio a questo, a prepararmi al momento della caduta – che arriverà, per tutti arriva – godendomi fino all’ultimo le attenzioni che mi vengono riservate».
«Adoro ricevere la classica pacca sulla spalla. È emozionante e al tempo stesso spaventoso, perché quando cominci ad apprezzarla e ti viene tolta, è parecchio doloroso». Ritu Dalmia
Riuscire a delegare è stato un processo inevitabile, ma non semplice «per una control-freak come me». Il numero di ristoranti è aumentato e Ritu si è affidata a un team solido, che in larga parte l’accompagna sin dalla prima apertura, al quale ha offerto delle opportunità di crescita «altrimenti si sarebbero stancati in fretta». Poi c’è l’amore. «La mia ragazza mi ha detto che mi avrebbe lasciata se non avessi trovato più tempo per me stessa, quindi avevo una pistola puntata alla tempia! (ride, ndr). Una volta facevo micro-management, oggi se mi domandano ‘Chi cucina quando non ci sei?’, rispondo ‘Gli stessi che cucinano quando ci sono’. Ogni notte ricevo il report di ciascun locale: quando sono a Delhi, imposto una sveglia alle 3:30 di notte per leggere quello di Cittamani a Milano, poi torno a dormire. La differenza col passato è che se avessi saputo di un cliente scontento non avrei più ripreso sonno, adesso invece mi basta sapere che il 99% è felice».
Ma il 99% è comunque tantissimo, le faccio notare. «Ok, allora facciamo il 98%!» (ride, ndr).
La strada è in salita, ne è consapevole, in quanto «la sindrome da burnout nel nostro mestiere è comunissima: si tratta di un lavoro intenso, anti-sociale, non sono previsti weekend, Natali, Capodanni, il periodo delle feste è solitamente il più impegnativo, gli orari non sono regolari e occorre investire energia fisica e mentale. Non è raro arrivare intorno a cinquanta, cinquantadue anni, e non farcela più: io però devo conquistare il mondo, e non posso permettere che ciò accada! Ecco perché voglio resettare il mio ritmo ed evitare di bruciarmi, ormai è la mia priorità numero uno».
Nei suoi sogni c’è l’Europa e l’intento di sbarcarvi con la sua neonata creatura meneghina:
«Cittamani è legato al contesto milanese, non lo vedo replicabile su altre città. Spica, invece, è divertente, giovane, nuovo, libero, uno spirito ribelle un po’ anni Settanta ed è come mi sento io ora. Ecco, forse Cittamani è il mio lato più adulto, mentre Spica quello più sbarazzino e giocherellone, che insieme mi regalano un equilibrio tra serietà e divertimento. Credo che Spica sia esportabile, però all’estero, perché in Italia – a parte Milano – non ci sono ancora città abbastanza ‘mature’ per capire un locale del genere. E poi devo ancora scendere a patti con un Paese dove tutto si ferma per tre settimane all’anno! (ride, ndr). Lavorare in Italia, per quanto la ami, è complicato: i costi per avviare e gestire un’attività sono elevatissimi, così come le tasse, quindi sto volgendo lo sguardo a capitali come Madrid o Lisbona. Lisbona in particolare è dinamica, abbastanza economica, internazionale, ha il mare. In Europa per me è il posto migliore che ci sia».
La conversazione presto viene dirottata sul suo ruolo chiave nell’abolizione della Sezione 377 del Codice Penale Indiano – che rendeva illegali le attività sessuali “contro l’ordine della natura” e puniva l’omosessualità con l’ergastolo – e sulla sua presa di coscienza rispetto a un coming out osteggiato dalle istituzioni.
«Non ero vittima in prima persona della Sezione 377: in India vivevo in una fetta di società all’interno della quale nessuno poteva ‘toccarmi’ o sparlare di me. Ero in una meravigliosa bolla, ci sono rimasta per tanti anni, e non ho mai avuto problemi con la mia sessualità. Poi a un certo punto conobbi due giovani donne, e la loro storia mi aprì gli occhi: una, su ordine del padre, venne stuprata a turno dai propri parenti per ‘curarla’ e ‘aggiustarla’, e a causa del trauma subìto due anni dopo si suicidò. Qualcosa dentro di me si ruppe, perché riconobbi l’ipocrisia di essere da un lato una chef rinomata e premiata, dall’altro una criminale per il proprio Governo. C’è una differenza di fondo tra patriottismo e nazionalismo: io sono una patriota, amo il mio Paese, ma non accetto, tollero e difendo ciò che lede i suoi abitanti».
Secondo Ritu, la società col tempo avrebbe abbracciato l’accettazione, ma la legge remava contro il cambiamento, punendo l’omosessualità con l’ergastolo e trasformando così le persone gay in criminali. «Io ero fortunata, e insieme ai miei amici gay costituivo un’eccezione: conversavamo del fatto di essere omosessuali in India bevendo ottimo Barolo, comodi nelle nostre case, senza però fare nulla a riguardo». Finché nel 2013 la Corte Suprema Indiana ha annullato una precedente sentenza del 2009 che dichiarava alcuni punti della Sezione 377 incostituzionali, rendendo nuovamente l’omosessualità un reato punibile a tutti gli effetti. Il Giudice Capo, in una famosa dichiarazione, affermò di non conoscere neanche un singolo gay, perché fino ad allora qualsiasi richiesta di depenalizzazione era arrivata da terze parti per un motivo piuttosto ovvio: essendo l’omosessualità un crimine, nessun gay aveva il coraggio di farsi avanti. «Nella nostra mente iniziò a insinuarsi proprio questo tarlo: sino ad allora neppure una persona gay aveva sfidato la Corte Suprema Indiana. Certo, da solo nessuno poteva riuscirci, occorreva ci fosse un gruppo: ricordo di aver fatto almeno duecento telefonate, ma tutti erano (giustamente) spaventati e non se la sentivano. Abbiamo impiegato due anni, e alla fine nel 2016 abbiamo presentato una petizione per abolire la Sezione 377 alla Corte Suprema. Poco dopo si è scatenato un effetto a catena, e trecento studenti di una delle più grandi università tecnologiche del Paese ne hanno fatto seguire una seconda. Modificare le decisioni della Corte Suprema non è facile, dato che occorre modificare la Costituzione: cinque giudici devono riunirsi e – all’unanimità – essere d’accordo. Nel 2018 la Corte Suprema ha dichiarato la Sezione 377 del Codice Penale incostituzionale ‘in quanto criminalizza la condotta sessuale consensuale tra adulti dello stesso sesso’: è stata la seconda volta nella storia dell’India che un simile evento aveva luogo».
Da un grande potere derivano grandi responsabilità, e Ritu Dalmia ha sperimentato tale risvolto sulla sua pelle: «dopo che la legge è passata, venivo fermata per strada dalla gente che esprimeva la sua gratitudine e che diceva di aver fatto finalmente outing grazie a me. Ho iniziato a ricevere parecchi messaggi sui social da parte di persone che mi raccontavano la loro esperienza e in un certo senso si affidavano a me per dei consigli: io in realtà non desideravo una simile responsabilità, è stato un momento difficile perché vedevo le mie energie risucchiate e non sapevo come gestire la situazione. Sono stata eletta portavoce di un movimento senza volerlo, e non ero pronta a reggere la pressione che ne è derivata». Ciononostante, Ritu non ha né rimorsi né rimpianti, e considera il suo impegno politico, insieme al risultato conseguito, parte integrante della persona che è oggi: «ognuno di noi nella vita ha uno scopo. Io ho realizzato ora che il mio non era aprire ristoranti, gestirli, ottenere fama e successo. No, lo scopo della mia vita era fare questo. Non avrei mai creduto di esserne capace, eppure è stato così, e sono davvero fiera di me stessa».
Ritu Dalmia è decisamente pronta a conquistare il mondo.
Articolo: Marianna Tognini Shooting fotografico: Alessandra Lanza