Bologna: le due torri sulla sinistra, l’ingresso della libreria Feltrinelli a destra. Pino Cacucci ci sta aspettando lì davanti, il giaccone aperto perché non fa freddo.
«Ha un’espressione gentile» penso, mentre lo vedo salutare e abbracciare uno dei miei compagni di viaggio. Me lo presentano, gli dicono «lei è Maddalena, si occuperà di intervistarti». Pino Cacucci, l’autore di Puerto Escondido, di Tina, Viva la vida! e San Isidro Futbòl, solo per citarne alcuni, è un uomo dai modi garbati, sinceramente attento alle domande, generoso nelle risposte. Abbiamo trascorso un po’ di tempo assieme, tra le vie della città che lo ospita da quarant’anni, e mi ha raccontato di sé, degli esordi nel mondo letterario, dei suoi dubbi, delle occasionali stanchezze e della passione per il Messico, la sua seconda casa.
La tua attività di scrittore si compone di tre aspetti principali: la narrazione, la traduzione e la sceneggiatura. Che rapporto hai con la scrittura? È un rapporto facile o complesso?
«È senz’altro un rapporto d’amore, la scrittura per me è uno sfogo, in Messico si dice “sacar el diablo pa’ fuera”, buttare fuori quello che ti rode, è stata lei a convertirsi in un mestiere e, con il tempo, ho cominciato a trarne notevolissime soddisfazioni. In principio mi è parso anche un po’ strano che si trasformasse da passione a professione ma, per quindici anni, ho vissuto di questo e bene. Sono in una fase di attesa, ho idee ma non ho più molta voglia di scrivere in questo momento, non è una decisione definitiva. Il mio ultimo libro è del 2015, al momento sono impegnato a tradurre e mi dedico ad attività collaterali».
Quando l’esigenza di scrivere è diventata una professione è cambiato qualcosa nel tuo modo di porti nei confronti della scrittura? Cosa si perde dell’approccio originario e cosa, invece, si guadagna?
«Il maggiore guadagno è stato di potermici dedicare non più come a un passatempo; il pericolo sta invece nell’eventualità di tornare a sentirlo come tale e io non ho bisogno di trovare un modo per far passare il tempo. Quella che era una passione solo mia è diventata un prodotto da offrire ad un mondo che legge e ha comportato tutta una serie di impegni, di festival, di presentazioni, in cui ho parlato tanto e per i quali ho girato tanto. Ora sento il bisogno di stare fermo e in silenzio, credo sia il culmine di una fase che mi richiede di rallentare un po’. Esiste un atteggiamento generale che vuole avere gli scrittori presenti, li si vuole conoscere, ma quando arriva all’eccesso non lo considero più tanto sano o utile. Nessuno mi costringeva e ognuna di queste cose era interessante, ho solo la consapevolezza che siano diventate troppe.
Va anche detto che è proprio grazie alle varie occasioni in cui ho parlato in pubblico dei miei libri che ho conosciuto molti di coloro che oggi stimo e considero amici carissimi, ma ad un certo punto la parte sul palco ha cominciato a pesarmi, ho avvertito solo la dispersione di energie e la fatica. Se avessi scelto di fare il cantante allora avrei dovuto mettere in conto di dover trascorrere parecchio tempo in tour, ma io volevo solo scrivere. Tornando alla domanda precedente, sì: la mia relazione con la scrittura è una relazione complicata, come quasi tutti i rapporti d’amore».
A che punto della tua vita hai capito che saresti diventato uno scrittore? C’è stato un evento o un momento particolare o ci sei scivolato dentro un giorno alla volta?
«Per tanti anni ho cercato una forma espressiva, anche la musica mi interessava molto, ma non ho mai avuto disciplina sufficiente per imparare a suonare bene qualche strumento. Amo il disegno fin da bambino e l’origine del mio voler raccontare storie parte con i fumetti, il mio romanzo Punti di fuga nasceva proprio con l’idea di essere un fumetto. Luigi Bernardi è stato uno dei maggiori promotori culturali che abbiamo avuto in Italia, scomparso qualche anno fa, con la sua casa editrice Granata Press ha tenuto a battesimo Carlo Lucarelli e Marcello Fois, li ha pubblicati come esordienti. Io ho avuto modo di conoscerlo ancora prima, negli anni Ottanta, all’epoca della casa editrice di fumetti L’isola Trovata, fu il primo a pubblicare fumetti giapponesi e francesi, io andai a mostrargli i miei lavori, lui li guardò, trattenendoli con sé il tempo giusto di osservazione e, infine, mi disse «ma perché non scrivi?»; come dire che la storia c’era, ma non avevo il talento necessario per eccellere tra i migliori, in un ambiente veramente molto difficile.
«Luigi Bernardi è stato uno dei maggiori promotori culturali che abbiamo avuto in Italia. fu il primo a pubblicare fumetti giapponesi e francesi, io andai a mostrargli i miei lavori, lui li guardò, trattenendoli con sé il tempo giusto di osservazione e, infine, mi disse «Ma perché non scrivi?»; come dire che la storia c’era, ma non avevo il talento necessario per eccellere tra i migliori, in un ambiente veramente molto difficile».
Fu una sferzata, ci riflettei e poi cominciai a scrivere. I racconti Outland Rock uscirono per una piccola casa editrice nel 1988. Questo fu l’anno del cambiamento. La mia raccolta portava in copertina la faccia di un gorilla, una copia arrivò alla Feltrinelli di via del Babbuino a Roma, dove il regista Federico Fellini, fortissimo lettore, andava spesso a curiosare. Fellini notò quella copertina sballata, che non c’entrava affatto con il contenuto, e acquistò il libro per mostrare l’immagine al suo truccatore per un film a cui stava lavorando. Io al tempo vivevo in Messico, ero tornato per un periodo in Italia avendo però perso l’interesse di scrivere, ma a Fellini piacque il mio libro e ritenne che fosse da pubblicizzare, cercò il mio numero di telefono sulla rubrica e trovò quello di mia sorella: «Sono Fellini e cerco un certo Pino Cacucci». «E magari fa anche il regista» rispose lei. «Così dicono. Mi rendo conto che lei non mi crede, le lascio il mio numero, mi faccia richiamare». Mi organizzò interviste e lui stesso ne rilasciò in cui parlava del mio libro, nacque un’amicizia che durò fino alla sua morte. Mi rimane il rimpianto di non aver fatto insieme quel viaggio in Messico che avevamo progettato».
«La mia raccolta portava in copertina la faccia di un gorilla, una copia arrivò alla Feltrinelli di via del Babbuino a Roma, dove il regista Federico Fellini, fortissimo lettore, andava spesso a curiosare. Fellini notò quella copertina sballata, che non c’entrava affatto con il contenuto, e acquistò il libro per mostrare l’immagine al suo truccatore per un film a cui stava lavorando».
La tua attività di traduttore, in questo momento, è la principale. Per riuscire a “tradurre”, quindi a “restituire” un testo scritto da altri, a quanto di te come scrittore devi rinunciare?
«Come traduttore mi impongo di rispettare lo stile altrui, è un lavoro a volte difficile e una dimostrazione di umiltà artistica, ma essendo io anche uno scrittore, in molti momenti, devo vigilare su di me e sulla mia voglia di apportare modifiche, attenermi allo stile altrui accettandone le ripetizioni che io non farei o una prolissità che non è la mia. Certo, nel trasporre un testo in un’altra lingua qualcosa si modifica sempre, perché la traduzione letteraria non deve essere letterale, ma nemmeno troppo una riscrittura. Mi capita di tradurre autori con un registro stilistico molto più vicino al mio e quindi, in questi casi, è più facile. Mi è capitato anche con alcune scrittrici».
Esiste, secondo te, una scrittura maschile e una femminile? C’è differenza?
«Non l’ho mai appurato troppo, questa distinzione come lettore mi sembra limitativa. Nella fotografia, invece, è possibile esista una differenza di sguardo tra maschile e femminile. Per diversi anni i fotografi Edward Weston e Tina Modotti hanno lavorato insieme, ritraendo la stessa cosa, gli stessi soggetti, ottenendo, però, risultati incredibilmente differenti. Lei, più sporca, più imprecisa ma piena di anima nelle cose che riprende, lui impegnato maggiormente nella ricerca della perfezione, nel trovare il giusto equilibrio tra le diverse geometrie.
Per quanto riguarda la scrittura, vanto un piccolo grande orgoglio, nel mio romanzo Nahui ho inserito alcuni capitoli in corsivo in forma di personali riflessioni della protagonista su certi eventi; molte lettrici mi hanno chiesto dove avessi trovato quelle lettere e se fosse possibile riunirle in un libro, invece erano mie. Claudia Piñeiro – che ho il piacere di tradurre – scrive libri che raccontano la società argentina attraverso la trama del noir e riesce a immedesimarsi perfettamente nel personaggio dell’uomo quando è protagonista della storia. Scrivere è una sfida, il tentativo di dare voce anche a chi è totalmente diverso da te».
Sei tu a scegliere i libri da tradurre in base a un qualche interesse personale o è una pura questione lavorativa? Ti è capitato di dover tradurre libri che non ti sono piaciuti?
«Le traduzioni non le scelgo io. C’è stato un caso particolare in cui ho trovato odioso l’autore, con una visione così cinica del mondo e talmente diverso da me, sia per scrittura sia per motivi narrativi, da doverlo tradurre tentando di rimanere il più neutrale possibile. Tutti gli altri sono stati incontri fortunati. Cerco sempre di instaurare un rapporto di collaborazione con l’autore, uno scambio via mail per avere la possibilità di chiarire ogni dettaglio. Molti di quelli che ho tradotto sono diventati amici, tranne purtroppo Che Guevara, per evidenti motivi».
Puoi spiegarci la differenza tra narrare e sceneggiare? Sono modalità diverse, ciascuna con regole proprie? In cosa consistono?
«La sceneggiatura ha delle gabbie, è una bellissima professione, ma bisogna saperla esercitare. Già dalle mie prime cose scritte, chi ha mestiere di cinema ha individuato in me uno che raccontava per immagini, ed è venuto naturale offrirmi di scrivere sceneggiature; l’ho fatto, ma ci sono serie limitazioni di tempo, di spazio e non puoi raccontare tutto quello che ti pare. Una miriade di regole che il narratore di storie non ha in mente, perché quando scrivi puoi prenderti tutte le pagine che vuoi, mentre il film si basa su di un’economia rigidissima.
Esistono film noiosi perché sono fatti da persone che non sanno raccontare e non sanno farlo nel modo richiesto. Ho scritto una sceneggiatura sulla vita di Tina Modotti, un progetto durato anni, c’ho lavorato molto e secondo me quella sceneggiatura era bella, ma la figura di Tina attraversa mezza storia del ‘900, era difficilissimo trarne un film; fu presa la decisione di renderla in quattro puntate e indirizzarla alla tv di qualità europea, ma il progetto è fermo.
La sceneggiatura del film “Nirvana” è quasi tutta opera del regista Gabriele Salvatores, quella del film “Viva San Isidro” non la ritengo un capolavoro ma ha corrisposto alle nostre aspettative, agli esordi ho scritto qualche altra sceneggiatura per una serie di telefilm con Diego Abatantuono come commissario. Mi sono occupato di sceneggiatura in modo sporadico, se mi propongono di lavorare su una mia storia può andarmi bene, ma con la consapevolezza che non è il mio mestiere».
Quando scrivi un romanzo conosci già tutta la storia fino alla fine o ti è capitato che fosse la storia, ad un certo punto, a portarti dove non ti eri immaginato?
«La maggior parte delle cose che scrivo nascono da un’idea più o meno strutturata e che poi sviluppo. Però dipende dai casi. Ricostruire la vita di Tina, di Frida Kahlo, di Nahui ha un movimento tutto suo, anche di ricerca; a metà degli anni Ottanta non c’era nulla su Tina Modotti, sono stato il primo a occuparmene, esiste Cinemazero a Pordenone che è un archivio importante di tutto quello che ha fatto questa donna, ho raccolto moltissimi dati ed è una passione che non finisce mai.
Poi ci sono storie che partono da qualcosa di reale su cui imbastisco un romanzo, ed è capitato che alcuni personaggi, che dovevano avere un ruolo più marginale, abbiano preso poi il sopravvento. In Demasiado Corazón ho inventato la figura di Bart Croce, un killer mercenario, una carogna totale, che doveva fare da contraltare al giornalista italiano giovane e donchisciottesco, che risiedeva in Messico. A quest’ultimo il compito di portare avanti questa storia, avendo contro un nemico che lo sequestra e lo deve far fuori. Anche se avevo in testa la trama, man mano che scrivevo, il cattivo prendeva sempre più spazio; doveva rappresentare il perché a noi va bene che esistano queste persone qui, glielo faccio anche dire: «voi fate la bella vita perché ci son quelli come me che garantiscono i vostri privilegi, altrimenti i morti di fame vi sbranerebbero, ma voi non volete sapere che noi esistiamo»; mi ha intrigato dare voce alle motivazioni del male, è diventato molto più protagonista della storia Bart Croce, che comunque ha una sua etica da carogna, che non il personaggio buono e bravo che vuole informare il mondo, ma il mondo poi di fatto non riesce a cambiarlo. Mi è successo e mi succede che qualche pezzo cresca indipendentemente dalla mia intenzione iniziale».
Da dove nasce la tua passione per l’America Latina e il Messico? L’attività di traduttore può essere considerata come un atto d’amore verso questa cultura e questo mondo?
«Assolutamente, è un mestiere per cui non ho studiato. Lo spagnolo l’ho imparato viaggiando e vivendo in Messico, dove è una lingua più vivace e aperta e ha inglobato vocaboli da altre lingue, mescolandoli. Molti termini tecnici sono miscelati con l’inglese, invece lo spagnolo di Madrid è rimasto fermo a come lo concepisce l’accademia della lingua, non si è mai evoluto; è stato quasi un vantaggio che io abbia imparato lo spagnolo in Messico. Questo lavoro è partito da un amore per le regioni che ho conosciuto e dove ho vissuto per lungo tempo. Poi vi ho aggiunto lo studio, ma in seguito a una passione iniziale del tutto istintiva e profonda. Sono partito nel 1982 la prima volta, andavo via da situazioni che non sopportavo più, non cercavo una terra promessa, vagabondando in Messico ho trovato subito degli stimoli per capire cosa mi attraeva.
Il primo viaggio fu incredibile, durò un mese, entrai immediatamente nella realtà di una famiglia messicana e questo mi aiutò enormemente a non restare in superficie, mi aprì un mondo e mi regalò le esperienze successive da cui deriva quasi tutto quello che ho scritto. Per quel che riguarda il Messico attuale, devo dire che lo slancio di prima non ce l’ho più, ci torno per ritrovare amici carissimi e farmi raccontare da loro la realtà vera, non quella riportata dai giornali».
«Il primo viaggio fu incredibile, durò un mese, entrai immediatamente nella realtà di una famiglia messicana e questo mi aiutò enormemente a non restare in superficie, mi aprì un mondo e mi regalò le esperienze successive da cui deriva quasi tutto quello che ho scritto».
«Mi rimette in moto neuroni ed emozioni, ma vivo una sorta di schizofrenia: da una parte l’innamoramento per le genti e il luogo, dall’altro il magone che mi sale quando constato quanto sia cambiato tutto. La vita in Messico è cambiata in peggio, alcune persone che conosco rischiano la pelle per quello che scrivono e dicono in pubblico, ma non c’è nemmeno più paura; la paura è la reazione istintiva per farti schivare il pericolo, ma se non la provi nemmeno più, accetti con fatalismo la possibilità di venire ammazzato. Ci torno con il cuore pesante, ma so anche che arrivo lì e mi si mettono in moto tutte le energie, incontro persone straordinarie: l’altro Messico, quello che non finisce sui giornali, il Messico della dignità».
In relazione alla lettura, che tipo di lettore sei? Ci sono libri che avresti voluto scrivere tu?
«Sono un lettore onnivoro, non ho filoni particolari, anche se la storia sta alla base dei miei interessi. Ad esempio la saga del Capitano Alatriste, scritta da Arturo Pèrez-Reverte, è ambientata nelle guerre europee a cui partecipava la Spagna del XVII secolo. Ho autori di cui ho letto tutto, ancora quando non sapevo che avrei fatto questo mestiere.
Ernest Hemingway e Patricia Highsmith, innanzitutto. Poi Luis Sepúlveda, che è un amico fraterno e che leggo anche per il rapporto di amicizia profonda che ci lega. L’ultimo libro “La fine della storia” mi ha restituito tutta la sua bravura. Don Winslow è uno scrittore rarissimo, un grande in assoluto, che si cala nelle situazioni più disparate e te le rende credibilissime. Il potere del cane e Il cartello sono due suoi romanzi ambientati nel mondo del narcotraffico e per questi dico «accidenti li avessi scritti io». Rappresentano un miracolo, perché tanti scrittori statunitensi usano il Messico come sfondo, ma senza capirlo realmente e senza restituirlo al lettore; lui invece lo conosce e riesce a raccontarne le dinamiche come le potrebbe descrivere un messicano. La lettura è alla base di tutto, per me».
Da un punto di vista di fermento culturale e letterario trovi che ci sia una grande differenza tra la Bologna degli anni Ottanta e quella attuale?
La differenza enorme è che sono diventato vecchio io e questo inficia qualsiasi giudizio, perché lo sguardo cambia. Mi pare ci sia un abisso tra la Bologna che ho conosciuto da ragazzo e quella di oggi. Posso parlarti della Bologna degli anni Settanta che mi ha dato tutto: emozioni, stimoli; era sfrenata, scatenata, credo che cominciai a scrivere per solitudine e per la mancanza di tutto questo. I primi raccontini sono del ’79, quando il movimento creativo era già finito.
«Posso parlarti della Bologna degli anni Settanta che mi ha dato tutto: emozioni, stimoli; era sfrenata, scatenata, credo che cominciai a scrivere per solitudine e per la mancanza di tutto questo. I primi raccontini sono del ’79, quando il movimento creativo era già finito».
I primi anni Ottanta coincidono con una sorta di glaciazione, la fine delle passioni, di Radio Alice. Terminò un modo di vivere e io me ne andai per quello, di fatto gli anni Ottanta non li conosco, ero in Messico.
La Bologna di oggi è una città sedata, un po’ come tutta Europa. È il mondo ad essere cambiato in peggio, non solo Bologna, però temo che Bologna si sia seduta sugli allori. Un tempo era un laboratorio e tutto cominciava qui, adesso girando per l’Italia incontro situazioni più vivaci in altre città e penso con rimpianto che Bologna non abbia tenuto il ritmo. Pur vivendo un’epoca infame e di aridità dal punto di vista creativo, vedo che sono altre le città che, dopo aver toccato il fondo, sono state in grado di ricominciare».
Il viaggio è materia di narrazione, ma ne è anche il motivo? Quando sei in viaggio scrivi?
«Quando viaggio non scrivo, lo considero uno spreco, preferisco vivere, prendo appunti ma poi scrivo a casa. Comincio ad accusare la stanchezza e ad apprezzare le comodità.
Ascolto tantissimo, vengo a conoscenza di storie incredibili, nei punti più disparati conosco qualcuno e ci scambio due parole ed è facilissimo trovare persone innamorate della propria terra e che ti raccontino aneddoti e leggende. Quanti libri ho scritto in questo modo. “La polvere del Messico” nasce da gente che mi raccontava storie. In Europa la diffidenza è un fenomeno patologico, in Messico c’è una maggiore apertura o forse i messicani capiscono meglio quando incontrano qualcuno in grado di ascoltarli davvero. Non hanno un’indole così allegra e spensierata come sembra, il fatto che detengano il record mondiale di feste è per compensare il senso di morte che hanno dentro. Octavio Paz l’ha detto bene: l’anima del Messico è una continua dissociazione tra vita, morte, allegria e tragedia, tutti gli estremismi e nessuna moderazione; ma per me tornare lì è un miracolo che si ripete ogni volta».
Articolo: Maddalena Roncoletta Fotografia: Simone Toson