Pierpaolo Vivaldi è il fondatore delle Officine Vivaldi, un progetto che ne racchiude molti altri al suo interno, fatto di scuolabus americani, airstream e altri mezzi vintage con cui partecipa ai più trendy festival bike&surf europei. Scopriamolo in questo articolo.
Come definirlo? Un’etichetta non riuscirebbe a contenerlo tutto. Non sto parlando del suo aspetto fisico, massiccio e imponente, ma del suo spirito che rispecchia un mondo letteralmente senza confini. Spericolato, all’apparenza un po’ rude, ma soprattutto un ragazzo di cuore.
Ho incontrato Pierpaolo Vivaldi nelle sue Officine Vivaldi. Un luogo eclettico in cui l’industriale, il vintage e i motori si uniscono in un effetto travolgente. Sembra irreale avere di fronte, dentro questo capannone nella campagna veronese, mezzi e autovetture che hanno contribuito a muovere intere generazioni di americani negli ultimi cinquant’anni.
«Le cose belle ed esclusive mi sono sempre piaciute, ancora di più se si tratta di motori». Pierpaolo Vivaldi
Il creatore di questo piccolo microcosmo di veicoli storici a stelle e strisce ha un nome e un volto. Vi presento Pierpaolo Vivaldi, una forte storia alle spalle e mille progetti creativi per il futuro.
È strano conoscerti qui, dispersi tra infinite distese di campi. Sei un ragazzo dall’animo internazionale, eppure è proprio da questo luogo che ha inizio tutto. Ti va di raccontarci gli albori della tua Officina Vivaldi?
«L’officina appartiene da sempre alla mia famiglia, ma la mia storia è iniziata da tutt’altra parte e anche in un altro settore. Sono sempre stato un po’ “matto” e ho seguito da subito il mio istinto. Mi era venuta l’idea di creare dei palloni enormi, delle sfere di 5 metri di diametro adibite alla proiezione di filmati o immagini. Era un prodotto che non esisteva in Italia, ma mi sono dovuto presto scontrare con la realtà, per lo meno quella locale: era come trainare un carretto con le ruote bloccate.
Le cose belle ed esclusive mi sono sempre piaciute, ancora di più se si tratta di motori. Non so spiegare come – forse bevendo birra, chiacchierando con amici o vedendo un film (ride, ndr) – ho avuto una folgorazione per gli Airstream, le roulotte in alluminio simbolo dei viaggi americani degli anni ’30. Dopo una ricerca ho scoperto che nessuno li aveva in Italia. Non ho saputo resistere: se non ci aveva ancora pensato nessuno prima, allora dovevo farlo io. Finché non sono riuscito a raccogliere il denaro sufficiente e a trovare gli Airstream non mi sono dato pace. Quando il primo caravan è arrivato, questa è diventata la mia vita e da allora non ho più smesso».
Dove hai recuperato questi veicoli da “antiquariato americano”?
«Il primo l’ho trovato in Italia. Il proprietario era un tipo particolare, uno statunitense che trasferitosi nel nostro Paese aveva ben pensato di portare con sé il suo Airstream americano, convinto di poter girare sulle nostre strade con 9 metri di roulotte più pick-up per il traino. E così questo gigante americano è rimasto fermo, finché non sono arrivato io!
Credevo così tanto in questo progetto che i proventi dei primi noleggi li ho subito reinvestiti per acquistarne un secondo. In poco tempo ho creato la mia collezione: oggi sono in otto a farsi compagnia dentro l’hangar delle Officine Vivaldi».
Gli altri però li hai scovati in America?
«Non tutti. Alcuni erano dei progetti di restauro abbandonati da altri, gente che li aveva comprati per sistemarli e che poi non aveva più potuto proseguire con i lavori per problemi di omologazione e altro. Non è facile percorrere questa strada perché in Italia ci sono barriere ovunque, sia burocratiche che di trasporto. Probabilmente se all’inizio mi avessero messo davanti tutti i problemi che avrei dovuto affrontare non l’avrei mai fatto. Credo sia stata un po’ di incoscienza e un po’ di determinazione a farmi arrivare dove sono oggi!».
Quindi il tuo grande amore è iniziato con gli Airstream, ma sappiamo che non hai saputo resistere al richiamo di altri motori…
«Sì, subito dopo ho preso dei furgoni Citroën tipo H e infine lo School Bus, il caratteristico autobus giallo che negli Stati Uniti porta i bambini a scuola. Un classico dell’immaginario che però qui in Italia è una vera rarità».
«Io voglio raccontare tutta la parte bella e divertente che precede un evento e dare ancora più valore a una grande occasione di visibilità». Pierpaolo Vivaldi
Mi sembra di capire che la passione per i motori abbia radici ben profonde in te.
«Hai ragione. Però voglio dire che non sono un esperto, so fare alcuni lavori di base ma c’è un grande mondo dietro a ogni intervento. Per fare degli aggiustamenti, soprattutto sui motori, c’è bisogno di veri esperti, di gente che sa dove mettere le mani e come rendere il mezzo bello ma anche conforme alle norme per la circolazione. Insomma, bisogna saper delegare, alcune volte, perché la scelta è tra lo specializzarsi in meccanica o dedicarsi ad altri progetti. Arrivati a questo bivio io ho preferito lasciare i motori ai meccanici esperti e dedicarmi alla ricerca di nuovi pezzi, di sempre nuove sfide che facessero crescere questo progetto che stava rendendo Officine Vivaldi sempre più ambizioso».
Quindi sveliamo qualcosa in più. Possiamo dire che in te convivono due passioni, quella per veicoli unici e quella per la comunicazione?
«In un certo senso l’obiettivo è quello. Mi è capitato così tante volte di vedere aziende e realtà che non sapevano valorizzare i propri prodotti che ho pensato a un’offerta che permettesse di raccontarsi quasi da sola. L’Airstream, ad esempio, può essere un ottimo mezzo per andare a un evento, non solo perché lo puoi mettere allo stand e dare un tocco originale al tuo spazio, ma anche perché la bellezza sta proprio nel viaggio e in tutto quello che ci sta dietro.
Oggi grazie ai social network possiamo comunicare qualunque momento. Io voglio raccontare tutta la parte bella e divertente che precede un evento e dare ancora più valore a una grande occasione di visibilità. Per questo motivo è nato il progetto #wearecoolbus».
Sei proprio certo di non avere un particolare feeling con l’America?
«Non mi dichiaro filoamericano, mi piacciono gli oggetti statunitensi per la loro particolarità e l’esagerazione di forme e motori. In realtà, però, pensandoci bene, mi attira tutto ciò che semplicemente è difficile da trovare, indipendentemente da quale sia la sua origine. Ci sono degli automezzi italiani che sono una favola, però il fatto che non siano dei pezzi unici non mi stimola a volerli in Officine Vivaldi».
Come si svolge il lavoro di ricerca di pezzi unici?
«Il segreto è meno poetico di quanto si creda: alla fine sono i contatti a fare la differenza. Ogni tanto c’è ovviamente anche qualche viaggio mirato, ma una rete di persone fidate che conoscono il settore e di cui sai di poterti fidare è il motore che fa girare questa ruota. Così si parte per andare a vedere un veicolo e si trovano invece mille altre occasioni per aggiungere al container anche qualche altro gioiellino».
Accanto a questo spirito da sognatore del passato si nasconde anche un biker appassionato..
«La mia grande passione estrema è quella per le moto, devo ammetterlo. Chi mi conosce sa bene che ogni tanto torno con qualche ammaccatura nel fisico. Ma cosa si può dire, con questa passione ci nasci: in bicicletta o in macchina impari ad andarci, in moto, invece, devi avere l’istinto della sella.
Quando ero ragazzino i miei genitori mi supportavano, ma avevano comunque sempre un po’ paura per me. “Attento che ti fai male”, “è uno sport pericoloso”. Ma quando quel brivido lo senti proprio tuo è impossibile fermarti. In questi anni ho corso in moto cross, su pista, motard e rally. Non sono, però, un professionista. A me piace fare tutto, ma dico sempre che non sono campione in niente».
Questo è un obiettivo molto difficile e lo è ancora di più per te, che in un unico lavoro stai coniugando tantissime passioni.
«Tutto è collegato: i motori, i viaggi, le emozioni. Se sei appassionato di moto sei per forza abituato a viaggiare, abituato all’imprevisto, alla riparazione. Ma anche alla condivisione: penso che questo sia il motore di tutte le cose più belle, che si tratti di Airstream, di School Bus o di moto. In una gara, che tu vada forte o piano, ti relazioni sempre con persone che ti aiutano e che vivono il tuo stesso momento e anche le tue stesse paure. La moto ha in sé una forte connotazione di condivisione».
Qual è stata la tua competizione più pericolosa, quella in cui anche a te si è “chiusa la vena”?
«Sicuramente la Pikes Peak, che ho fatto per tre anni consecutivi. È la seconda gara più vecchia d’America: si parte a 2.000 metri e si arriva a 4.300 metri d’altezza. Parti da solo ed è una gara in salita contro il tempo. Si corre con i burroni ai lati, il rischio è davvero alto. Io sono riuscito a partecipare grazie ad amici “malati”, nel senso che queste persone hanno condiviso la loro casa, il furgone, gli attrezzi e qualsiasi altra cosa con me pur di correre insieme.
La cosa più bella è che queste relazioni sono nate nei modi più assurdi, addirittura con alcune aziende è nata prima l’amicizia del lavoro. Di conseguenza qualche volta, nel bene e nel male, ti trovi a mescolare le due cose e quando dall’altra parte c’è la voglia di condividere è piacevole. Ad esempio, con Deus Ex Machina, è proprio questo il tipo di rapporto che abbiamo creato e grazie a loro, a piacevoli momenti passati assieme, si è presentata l’occasione di andare a Bali per una quattro giorni di gare enduro, motocross, flat track e surf. Il surf l’ho lasciato agli altri, ma questa esperienza è stata un regalo senza valore: abbiamo corso con le moto sulla spiaggia e siamo passati accanto a monasteri antichissimi. Un’occasione unica nella vita per fare quello che non avrei mai osato sognare».
Accanto a storie di veicoli storici americani e di gare sulla sella di una moto – giusto per non annoiarsi – hai creato il progetto “WEARECOOLBUS”, dove il protagonista indiscusso questa volta è il famoso autobus giallo. In cosa consiste oggi questo progetto?
«Di base è uno spin-off di Officine Vivaldi. In ogni occasione in cui ci siano motori, sport estremi e persone appassionate come noi, tiriamo fuori dal nostro hangar lo scuolabus e partecipiamo, lasciando la nostra firma ovunque ci spostiamo e raccontando il nostro viaggio sui social network.
In questi eventi, come il occasione dell’ultima edizione del Wheels & Wawes di Biarritz o il Woman Boot Camp a Verona, lo School Bus diventa la nostra casa per qualche giorno e il punto di riferimento anche per molti, moltissimi altri compagni di avventura.
Per questi viaggi, comunque, non pongo mai un limite, neanche quello delle moto. Se c’è un’occasione per essere parte di un qualcosa di unico, qualsiasi cosa sia e qualsiasi settore riguardi, io ci sto».
Questo spirito avventuroso ti ha portato anche a fare un pensiero che torna all’interno della tua officina. Raccontaci qual è il progetto che sta solleticando la tua fantasia in questo momento.
«Tutta la dinamica che si è creata partecipando a questi eventi mi ha convinto a creare qualcosa di nuovo anche all’interno dell’officina. Mi piacerebbe portare all’interno del mio capannone tutto quello che viviamo al di fuori, componendo un team creativo capace di gestire e canalizzare i contenuti che siamo in grado di creare con i nostri viaggi e le nostre iniziative.
Questo è quello che mi frulla per la testa. Sono partito dalle mie passioni per attitudine, ma cerco di tenere sempre gli occhi e la mente aperti perché non escludo niente su questa mia strada».
Articolo: Martina Vanzo Shooting fotografico: Martina Padovan