Scorrendo il curriculum di Paola Manghisi, sono due le cose che saltano all’occhio: subito la numerosità delle volte in cui incontri le espressioni “prima/seconda classificata”, poi – a uno sguardo più attento – la brevità del periodo che comprende tutti questi successi.
Incontrandola, colpiscono altre due cose: la grazia nel movimento e gli occhi profondi, mobilissimi anch’essi.
Partiamo dall’inizio: la tua scoperta dell’Hip Hop.
È avvenuta a 22 anni, accompagnando un’amica a un corso di danza. Già da adolescente mi piacevano la musica e lo stile Hip Hop, ma non mi ero mai avvicinata alla danza: non pensavo certo di farlo a 22 anni, peraltro con un figlio di un anno. Eppure è successo: mi erano sempre piaciute le crew che ballavano per strada e le influenze afroamericane. Appena approdata a scuola di danza mi sono sentita l’ultima arrivata, anche se ho scoperto di imparare con molta facilità, quindi ho affrontato il mio primo saggio. Da qui è partita a grande velocità una serie di vicende che mi ha portato fino a qui: profondi cambiamenti personali, una nuova insegnante, un compagno che faceva il ballerino di Hip Hop. In soli cinque anni ho avuto un’evoluzione enorme, ho scoperto una grande passione e la mia voglia di apprendere, di buttarmi, è schizzata al 200%.
Il tuo curriculum lo dimostra: hai ottenuto grandi successi in un lasso di tempo molto breve!
Ho iniziato a studiare danza Hip Hop nel 2001 e dal 2003 all’MC Hip Hop School (Cruisin’) con i docenti Marisa Ragazzo e Omid Ighani: con loro ho conseguito il diploma di MC Hip Hop Instructor nel 2006 e nel 2007 sono diventata assistente di Marisa Ragazzo e Omid Ighani nella stessa scuola in cui ho studiato.
Contemporaneamente ho fatto tante altre cose: dal 2003 sono entrata a far parte della compagnia Oxygen, della quale dal 2005 sono diventata anche coreografa; da quel momento ho intrapreso la carriera di insegnante e coreografa in diverse scuole del territorio veronese e mantovano e mi sono concentrata anche sul perfezionamento dello studio delle danze urbane. Infatti nel 2005 sono entrata con un’audizione all’Urban Dance Hdemy specializzandomi anche in House Dance e Video Dance con i docenti Marisa Ragazzo, Omid Ighani e Alessia Gatta.
Sicuramente i primi anni di formazione sono importanti, ma nel curriculum spicca in particolare l’anno 2008…
Proprio quell’anno, esattamente il 26 gennaio, dopo una serie di successi nei circuiti più importanti, ho esordito con lo show O.X.Y.G.E.N. e in ottobre sono entrata nel team del progetto Zoolu con la direzione artistica di Marisa Ragazzo. Sempre nel 2008, insieme a Samar Khorwash, ho fondato la crew di danza Hip-Hop “Tha Leaf” con cui ho partecipato a diverse rassegne, concorsi ed esibizioni, oltre a un videoclip.
Con questo e con altri gruppi (Knowledge, Kappa Krew, Kodama, K- Squod) ho lavorato negli ultimi cinque anni: insieme a loro, sono salita sul podio in varie occasioni, l’ultima a maggio 2015 al One Day International Contest di Torino. Nel 2015 ho ripreso anche i panni di ballerina entrando nel progetto Maneki Neko di Marisa Ragazzo, andando a vincere due importanti concorsi: Concorso Internazionale Danzafirenze XV 2015 e Concorso Internazionale di danza città di Spoleto.
Fermiamoci proprio sul termine “Internazionale”. Come si inserisce secondo te la cultura Hip Hop in Italia?
Le sue radici sono americane, l’Hip Hop è arrivato qui relativamente tardi rispetto alle sue origini. È un movimento sociale e culturale che ha preso forma durante gli anni ’70 per dar voce e sfogo ai disagi sociali che caratterizzano il lungo percorso di integrazione negli Stati Uniti da parte del popolo afroamericano, ma anche come strumento di festa ed aggregazione. In Italia trovo che l’Hip Hop sia percepito secondo gli stereotipi originali: come la danza degli emarginati, che ballano per le strade in contrapposizione magari alla danza classica e alle sue scuole costose. In realtà non è più così, in questi decenni la realtà è molto cambiata: in America, e tantomeno in Italia, non esiste solo l’atmosfera del ghetto, la volontà di danzare per sfuggire alla strada e alla delinquenza. Ora si balla per puro piacere, lo vedo anche nell’accogliere nei miei corsi sempre più bambini, spesso spinti dai genitori verso l’Hip Hop.
A cosa è dovuta secondo te questo interesse verso l’Hip Hop?
Certamente la televisione, i talent shows, i film di genere, contribuiscono alla notorietà dell’Hip Hop. Non lo vedo, però, in modo totalmente positivo: questa attenzione mediatica è molto superficiale, quindi non aiuta affatto a far uscire ciò che c’è di vero, la purezza che sta nel cuore di questa cultura. L’Hip Hop è penalizzato (anzi, per meglio dire, è penalizzato per certi versi, mentre per altri aspetti questo è un suo punto di forza) dall’assenza di regole ben definite: non ci sono i passi e le posizioni della danza classica, che poi confluiscono nella danza moderna e jazz; nell’Hip Hop non ci sono nemmeno i grandi nomi di ballerini o coreografi, come Pina Bausch che, ad esempio, ha la danza contemporanea. Per questo buona parte del lavoro della mia insegnante Marisa Ragazzo, e dei suoi allievi e colleghi come me, consiste nel codificare una parte tecnica, per definire le nozioni di base necessarie per costruire il passo. La disciplina c’è anche in questo tipo di danza, ma chi la impara se ne rende conto solo se lo prevede lo stile di insegnamento che riceve. Ad esempio il footwork, tecnica che definisce il lavoro dei piedi nel New Style (già codificato nel Breaking come l’insieme dei movimenti a terra ad esclusione delle power moves) nonostante sia universale, ad oggi, non è ancora ufficialmente riconosciuto: su questo e altro stiamo lavorando da circa 15 anni: credo che stiamo davvero portando un’evoluzione nell’ambiente.
«Buona parte del lavoro consiste nel codificare una parte tecnica, per definire le nozioni di base necessarie per costruire il passo. La disciplina c’è anche in questo tipo di danza, ma chi la impara se ne rende conto solo se lo prevede lo stile di insegnamento che riceve. Su questo e altro stiamo lavorando da circa 15 anni, credo che stiamo davvero portando un’evoluzione nell’ambiente».
Hai usato termini molto specifici: Breaking, footwork… facciamo un passo indietro: come spiegheresti a un “non esperto” cos’è l’Hip Hop?
Da un punto di vista artistico l’Hip Hop prende forma attraverso i cosiddetti “4 elementi”: MCing, DJing, Writing e Breaking, dove quest’ultimo è il simbolo della parte danzata di questa cultura ed emerge grazie anche alla sua spettacolarità. Secondo me, nel Breaking c’era il massimo grado di purezza, come dicevo prima, di capacità di simbiosi con la musica: purtroppo questi elementi si sono un po’ persi, sia per la ricerca dell’applauso attraverso una danza sempre più acrobatica, sia per le progressive contaminazioni con altri tipi di danza (che di per sé non sono negative; trovo però che vadano calibrate per non perdere del tutto lo spirito originale). Oggi lo scenario è ben più ampio e le danze che fanno riferimento all’Hip Hop sono molteplici: oltre al Breaking (che noi italiani associamo ai primi film e spettacoli arrivati nel nostro Paese negli anni ’90) altre forme di danza sono comprese nel contesto Hip Hop: tralasciando le precisazioni temporali più puntigliose distinguerei tra Old School (Hype) e New Style in cui vanno a confluire influenze del passato rimescolandole in uno stile unico e poliedrico.
Quest’ultimo è appunto l’ambito più ampio e controverso: dagli anni ’80 ad oggi si modifica, si evolve e si adatta andando di pari passo con la musica e le esigenze sociali. Siamo passati quindi dall’Old School alle tendenze più cool, più commerciali, ma anche a volte più sociali, come il Clowning, fino a situazioni “sui generis” come l’House Dance.
Alla fine di questa panoramica, come vivi personalmente il tuo ruolo nel mondo Hip Hop?
Da due punti di vista: commerciale e teatrale. Con il primo intendo dire che in tutto il mondo il business ha ormai soppiantato l’ambiente tipico delle radici di questo movimento: la strada, il ghetto. In Italia l’Hip Hop è arrivato già “filtrato”, la dimensione originale non ci è mai appartenuta davvero, ma ne abbiamo raccolto la libertà, la voglia di ballare per se stessi, di mettere al centro la propria personale passione.
Come insegnante, mi interessa esprimere l’energia. Cerco di incanalarla a livello tecnico e pratico, sullo stesso piano: voglio trasmettere la disciplina, ma senza mai sacrificare la parte ludica. Solo chi si diverte a ballare può avere un futuro nella danza… ma ci vuole metodo: c’è stato un momento in cui gli insegnanti spesso erano poco qualificati dato che non esisteva una vera e propria accademia; addirittura gli istruttori di fitness si improvvisavano maestri di Hip Hop! Va bene la contaminazione, è sempre fonte di arricchimento e personalizzazione, però sono convinta che si debba prima di tutto padroneggiare la “grammatica di base”. Un sano compromesso tra lavoro tecnico e libertà è la base per arrivare a quel secondo punto di vista di cui parlavo: il teatro. A questo proposito, i miei maestri Marisa Ragazzo e Omid Ighani quest’anno saranno protagonisti di un vero evento internazionale: presto voleranno a New York per ballare in teatro!
È difficile per un ballerino arrivare a questo successo?
Anche se ai non addetti ai lavori può sembrare poco evidente, per il panorama italiano è un grandissimo passo avanti. È un traguardo molto sudato: portare l’Hip Hop nei teatri di alto livello è già difficile in Italia, per cui si può capire quanto sia dura per i ballerini italiani arrivare nei teatri americani! Con questo non voglio dire che Marisa e Omid faranno una rivoluzione nel mondo della danza, ma che nel nostro piccolo tutto il gruppo sta facendo una parte importante per “andare oltre”, per portare l’Hip Hop fuori dal suo ruolo finora piuttosto penalizzato. È un bel salto di qualità, un altro gradino verso i piani alti della danza, e trovo che per tutti noi coinvolti nel progetto sia un grandissimo motivo di orgoglio.
«nel nostro piccolo tutto il gruppo sta facendo una parte importante per “andare oltre”, per portare l’Hip Hop fuori dal suo ruolo finora piuttosto penalizzato. È un bel salto di qualità, un altro gradino verso i piani alti della danza, e trovo che per tutti noi coinvolti nel progetto sia un grandissimo motivo di orgoglio».
A proposito di orgoglio, ti trovi meglio nei panni di ballerina, di coreografa o di insegnante?
È difficile rispondere… ho iniziato ovviamente come ballerina e da sempre ho cercato e cerco di imparare sempre di più: è un amore grande che probabilmente nutrivo anche prima di iniziare a danzare, ma senza rendermene conto. Per me non contano più di tanto le implicazioni “commerciali” di ciò che faccio: lo faccio perché è la mia passione, la mia vocazione, è l’aria che respiro. Da essere ballerina a curare le coreografie per i miei allievi e compagni, il passo è breve: amo costruire situazioni coreografiche in cui diversi gruppi si muovono in collegamento sul palco, mi piace creare vari punti di vista in cui i diversi ballerini interpretano alcuni la melodia principale, altri la parte orchestrale… in cui possiamo creare la musica con il corpo.
Ho vissuto tante vicende prima di capire qual è il mio talento, e credo che quello più grande in me sia quello dell’insegnamento: stranamente, è stato quando da ragazzina studiavo karatè che mi sono accorta di essere brava nel trasferire agli altri ciò che sapevo, finché a loro volta non acquisivano la stessa abilità. Ora lo vedo soprattutto con i miei allievi più piccoli: ci tengo a far scegliere a loro il tipo di danza che preferiscono, senza che siano condizionati dai gusti o dalle impressioni dei genitori. Spesso i bambini hanno le idee molto chiare, specialmente in materia di danza: è un modo di esprimersi, di far uscire ciò che si ha dentro; per questo è fondamentale sentirsi a proprio agio mentre si balla.
Quando un ballerino si esprime al proprio meglio, allora la sua danza è bella da vedere! È ciò che intendevo poco fa dicendo che, sebbene il mio stile di insegnamento punti molto sulla tecnica, questa non deve mai superare la capacità espressiva: meglio un lavoro meno tecnico ma più espressivo, capace di arrivare “dentro”.
«Un momento indimenticabile è stato sentire il papà di un mio conoscente, un signore di settant’anni, avvicinarmi dopo uno spettacolo e dirmi “Mi hai fatto vibrare il cuore”. Quando riesci a trascinare, a rapire chi ti guarda ballare, hai vinto».
Quindi per te un lavoro ben fatto deve basarsi su questo, la capacità di arrivare “dentro”?
L’obiettivo di ogni ballerino, coreografo o insegnante deve essere far arrivare al pubblico qualcosa a livello emotivo. Un’emozione di qualunque genere: voglio che chi ci guarda sul palco provi qualcosa. Spesso sono i genitori dei miei giovani allievi a dirmi che hanno provato questo tipo di sensazioni durante il saggio dei loro figli: può succedere a qualunque età e a qualunque livello sia il ballerino, l’importante è che sappia muoversi con tutto il cuore. Non si deve temere la tensione, anzi. L’esibizione di un ballerino è la sua massima occasione di libertà, di sentirsi se stesso. Quando una persona balla dovrebbe sentirsi serena, godersi il suo momento sul palco: è il massimo, un momento di grande gioia per chi danza e anche per il suo pubblico. In pochi istanti ci si gioca il tutto per tutto, si dà il meglio di sé a prescindere da un’esecuzione totalmente perfetta: ho capito la necessità di un compromesso tra la pretesa di perfezione e la pura comunicazione. Un momento indimenticabile è stato sentire il papà di un mio conoscente, un signore di settant’anni, avvicinarmi dopo uno spettacolo e dirmi «Mi hai fatto vibrare il cuore». E forse il mio successo più grande è, oggi, poter danzare con mio figlio Lorenzo, che ha davvero un talento fuori dal comune, e sapere che i miei genitori – dopo anni in cui non hanno voluto sapere niente della mia carriera nella danza – ora sono i miei “fans numero 1”. Quando riesci a trascinare, a rapire chi ti guarda ballare, hai vinto.
Articolo: Silvia Zanolli Contributi fotografici: Dana Buhnea