Moris Pradella & Quintorigo, Stage, Bologna, Italy

James Marshall Hendrix in arte Jimi Hendrix, il leggendario musicista consacrato dalla rivista “Rolling Stones’” come il più grande chitarrista di tutti i tempi. In pochi anni di vita cambiò per sempre la storia della musica rock eppure di sé diceva: «Non sono un chitarrista, tutto quello che suono è verità ed emozione, basta una serie di note, il resto è improvvisazione». Sono passati 45 anni dalla sua scomparsa, ma la musica di Jimi è viva, infiamma ed esalta ancora oggi, e forse è per questo che sono tanti i musicisti che, con più o meno reverenza, si avvicinano al genio indiscusso di Hendrix.

Ci sono diversi modi, tuttavia, per “fare una cover”: si può scegliere il brano che conoscono tutti, canticchiarlo e suonarlo alla meno peggio, si può prendere spunto dalla storia narrata nel pezzo, trarre ispirazione e rivivere l’emozione, oppure si può letteralmente indossare il brano, impossessarsene, diventarne amante e farlo proprio, al punto da sconvolgere i sensi di chi ascolta. Ecco, questo è quello che abbiamo avuto il piacere di sperimentare al Bravo Caffè di Bologna grazie a Moris Pradella, perfetto per dar voce a Jimi Hendrix e i Quintorigo, semplicemente geniali nel riarrangiamento dei brani, in una “Quintorigo Experience”, che ripercorre i successi di questo mostro sacro della musica rock.

 

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Ci sono diversi modi, tuttavia, per “fare una cover”: si può scegliere il brano che conoscono tutti, canticchiarlo e suonarlo alla meno peggio, si può prendere spunto dalla storia narrata nel pezzo, trarre ispirazione e rivivere l’emozione, oppure si può letteralmente indossare il brano, impossessarsene, diventarne amante e farlo proprio, al punto da sconvolgere i sensi di chi ascolta.

 

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Moris Pradella è uno stupefacente musicista di Revere, in provincia di Mantova: un talento formidabile made in Italy ma di origine eritrea. Una voce soul, penetrante ed accattivante che vanta numerose esperienze ed eccellenti collaborazioni. Mi ha aperto le porte di casa sua a Ostiglia, fra pile di centinaia di CD, chitarre di ogni genere e le sinuose note di Miles Davis in sottofondo. Mi sono lasciata incantare dai suoi racconti e successivamente travolgere dalla sua voce. Impossibile non avere il classico pugno allo stomaco quando lo si sente cantare, ed essere ipnotizzati dalla sua performance.

Ciao Moris, raccontaci la tua storia dal principio: quando è iniziata questa splendida avventura con la musica, quando hai cominciato a suonare?

Suono da sempre, anche perché onestamente non avrei potuto fare altro nella vita. La musica è l’unico linguaggio che parlo e capisco realmente fin da bambino. In casa avevamo una chitarra che apparteneva a mio padre e ho iniziato a suonarla a sette anni. Ero, allora come adesso, molto curioso e sensibile alla magia della musica, mi emozionava, mi faceva ridere e mi faceva piangere, un’autentica storia d’amore; così a 12 anni, terminata la scuola media, ho voluto intraprendere un percorso formativo più serio e sono entrato al conservatorio di musica “Lucio Campiani” di Mantova, per studiare pianoforte. Purtroppo, però, non ho terminato gli studi.

 

Tu sei il classico musicista a tutto tondo, canti, suoni la chitarra, il basso, il pianoforte e hai anche un’altra peculiarità: l’orecchio assoluto. Ce ne parli? Di cosa si tratta?

Riconosco una nota musicale senza l’ausilio di uno strumento. Sento un suono qualsiasi e distinguo la nota, ascolto una canzone e riesco a riprodurla esattamente com’è. A detta di molti è un dono prezioso, è una cosa che non ho cercato, è genetico, ce l’hai e basta, non serve l’educazione musicale o essere un musicista. Per quanto mi riguarda, ho scoperto di avere l’orecchio assoluto in conservatorio. Ad accorgersene è stato l’insegnante di coro. È un bene perché, in quanto musicista, di certo ti facilita, allo stesso tempo, però, può essere un male per un amante della musica, perché si perde una delle cose più belle che la musica regala: il lasciarsi andare.

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Ti perdi quello che puoi sentire solamente tu nella musica che stai ascoltando. A 5 anni ero più spensierato: mi ricordo che un giorno, mentre la radio trasmetteva la “Donna cannone” di De Gregori, ho cominciato a piangere disperatamente, nemmeno mia madre riusciva a calmarmi; il motivo è che avevo sentito la bellezza della musica e l’emozione mi aveva travolto. Ora, quando ascolto un brano, mi emoziono meno perché è come se avessi lo spartito davanti.

C’è stato qualcuno in particolare che ha notato il tuo talento quando eri piccolo e ti ha incoraggiato a intraprendere la carriera da musicista?

Sicuramente un’insegnante delle scuole medie: la vicepreside. Non ero molto bravo a scuola, passavo tutto il tempo a suonare e a preparare il saggio di fine anno, con la complicità anche dell’insegnate di inglese. All’esame di terza media ho suonato, la commissione mi ha chiesto cosa avessi preparato per la prova di ingresso al conservatorio, hanno portato una tastiera in aula e mi hanno fatto suonare, erano perfettamente consapevoli che volevo e avrei potuto fare solo quello nella vita e non mi hanno voluto ostacolare con una bocciatura… anzi, in questo modo, mi hanno favorito e mi hanno fatto andare incontro al mio destino.

 

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Si può dire, quindi, che siano stati degli insegnanti molto comprensivi; in proposito, cosa pensi dell’insegnamento?

Insegnare è una cosa delicata da fare, non basta studiare o prepararsi per farlo, bisogna avere una predisposizione a trasmettere un’emozione. Io ho sempre avuto insegnanti validissimi: quello di composizione (Paolo Perezzani), per fare un esempio, non ascoltava solo Bach, ma anche gruppi come i King Crimson. Era bello interagire con lui perché parlavamo di Hendrix e al tempo stesso di Beethoven.

L’insegnante deve trasmettere quello che ha dentro: le sue esperienze e i suoi viaggi. La vita di un musicista non è fatta solamente di spartiti e note, ma di serate, esperienze e arrabbiature; tutto questo devi categoricamente comunicarlo, insegnare musica non deve essere noioso, ma accattivante e coinvolgente.

«L’insegnante deve trasmettere quello che ha dentro: le sue esperienze e i suoi viaggi. La vita di un musicista non è fatta solamente di spartiti e note, ma di serate, esperienze e arrabbiature; tutto questo devi categoricamente comunicarlo, insegnare musica non deve essere noioso, ma accattivante e coinvolgente».

Sei a tua volta un insegnante di musica?

Sì, mi piace molto insegnare ma, al momento, riesco a seguire solo un ragazzo. È mio allievo da quando aveva 8 anni e mi ha dato grandi soddisfazioni: è un chitarrista eccellente. Come insegnante sono schietto e diretto, nel bene e nel male. Se ritengo che qualcuno non sia valido glielo dico subito, senza mezzi termini. Mi è capitato di vedere di tutto in passato, i più terrificanti sono quelli che arrivano a lezione con la stratocaster imballata e amplificatori potentissimi, ma, nonostante le chitarre da 4000 euro, per mesi non riescono a fare progressi. Il mio consiglio: vendi la chitarra e usa quei soldi per fare davvero quello che ti piace fare nella vita! Bisogna fare quello per cui si è portati e che piace davvero, non insistere in cose che non portano a nulla.

John Cage diceva che per imparare la grammatica musicale ci vogliono 20 minuti, i successivi 10 minuti possiamo cominciare a parlare di jazz e musica contemporanea; questo per dire che gli ingredienti sono pochi e molto semplici, se sei portato per la materia sai come utilizzarli.

Cosa ti rende davvero soddisfatto e completo in quanto musicista?

Alla fine l’unica cosa che mi interessa è proprio fare il musicista. Io non ho particolari ambizioni, il successo non mi ha mai interessato. Mi è sempre importato di capirne di musica e basta, è per questo che ne ascolto anche tanta. La musica mi ha regalato delle gioie infinite, nasce da dentro. Ancora oggi mi capita di piangere grazie alla musica. Con “K3”, un progetto che mi vede a fianco di Stefano Cappa (basso) e Adriano Molinari (batteria), per esempio, mi succede spesso. C’è una sintonia particolare che non è studiata; considera che noi non proviamo mai perché non abbiamo tempo, ma quando suoniamo insieme si crea una magia particolare, c’è un’empatia incredibile ed è una cosa che percepisce anche il pubblico. Quello che succede nella serata è tutto vivo e spontaneo, accade solo in quel momento e a me spesso scendono i lacrimoni. È lì la bellezza della Musica.

«Alla fine l’unica cosa che mi interessa è proprio fare il musicista. Io non ho particolari ambizioni, il successo non mi ha mai interessato. Mi è sempre importato di capirne di musica e basta, è per questo che ne ascolto anche tanta. La musica mi ha regalato delle gioie infinite, nasce da dentro».

Fra i musicisti a cui sei più legato, chi sono quelli che non smetteresti mai di ascoltare?

Primi fra tutti: Jimi Hendrix e Miles Davis. In casa ho tutto originale, italiani da una parte, stranieri da un un’altra e una pila di cd solo di Miles Davis. È stato un musicista incredibile. Forse, ma è una considerazione personale, Mozart a parte, è stato il più grande musicista di tutti i tempi. Era un camaleonte, cambiava sempre. I suoi pezzi sembrano scritti da mani diverse. È stato un innovatore e pochi musicisti hanno questa dote: cambiare e non annoiare mai, stupire ogni volta, senza andare fuori tema, perché altrimenti non “arriva” niente. “Play the theme”, anche quando stai facendo l’assolo, pensa al tema, tu sei il Maestro che dirige l’orchestra e devi assicurarti che ci sia sempre armonia.

Per tutti i musicisti arriva l’adrenalinico momento dell’esibizione “live”, della condivisione delle proprie esperienze e del confronto con se stessi e il palcoscenico. Che ricordi hai delle tue prime esibizioni?

Ho iniziato ad esibirmi a 16 anni, suonando in trio la musica di Hendrix. A Revere (MN) c’era un bel giro di musicisti e io suonavo con delle persone molto più grandi di me, sebbene fossi un adolescente. Tuttavia era sempre lo stesso giro ed io ero curioso e desideroso di imparare altro, così un giorno, assieme ad un mio amico batterista, ho partecipato ad una Jam session jazz, a Modena. Sono andato a questa jam tutti i sabati per tre mesi di seguito, senza mai suonare, ascoltavo e basta, imparavo. Non sapevo nulla di jazz. Ho iniziato a imparare sonorità nuove e a me sconosciute, a crescere musicalmente, a sperimentare e a mettermi alla prova. È stato in quel periodo, pieno di stimoli ed esperienze nuove, che mi sono ritrovato per caso sul palco con Sugar Blue  (armonicista dei Rolling Stones); mi ero esibito prima di lui, mi ha sentito suonare, gli sono piaciuto e mi ha invitato ad accompagnarlo con la chitarra, ho fatto praticamene tutto il live con lui! Questa è una delle prime esperienze veramente belle che mi ricordi.

 

Vorrei che mi parlassi di alcune esperienze musicali. Ti sei trovato in situazioni prestigiose come quella del Montreaux Jazz Festival e sei stato impegnato in tour di tutto rispetto come “Sun” con Mario Biondi: che ricordi hai in merito?

Il Montreux Jazz Festival è qualcosa di pazzesco, si tratta di uno dei festival più importanti al mondo. È stata una di quelle occasioni che ti capita poche volte nella vita. Suonavo quaranta minuti alla fine del festival, nell’albergo che ospitava i musicisti che si esibivano. Il repertorio era di 180 pezzi perché ogni sera dovevamo cambiare scaletta. Nella sala ad ascoltarci c’erano tutte le sere: Quincy Jones, Santana, George Benson, Chaka Khan, insomma una situazione surreale. Erano tutti lì: la storia della musica. L’ultima sera del festival la direzione artistica ci ha chiesto di terminare con “Smoke on the water”. Questo brano pare sia stato composto dai Deep Purple proprio a Montreaux mentre il casinò bruciava, la leggenda dice a causa di un mozzicone di sigaretta di Frank Zappa, in realtà fu in seguito ad un razzo segnaletico sparato da uno spettatore durante il concerto di Zappa. Quasi al termine della serata, quando mancavano ancora quattro pezzi per ultimare la scaletta, entrano in sala proprio loro: i Deep Purple, che quell’anno avevano chiuso il festival. Il mio gruppo non voleva assolutamente suonare “Smoke on the water” davanti a loro, io mi sono fatto coraggio e ho iniziato suonare il riff. È cominciato il delirio in sala, il pezzo è durato venti minuti e i Deep Purple sono saliti in piedi sui tavoli e si sono messi a ballare e ad applaudirci! L’emozione è stata indescrivibile, riesci ad immaginare qualcosa del genere?

Con Mario Biondi ho partecipato come corista al tour “Sun” del 2013. Mi aveva contattato la sua manager perché stavano cercando un corista e Mario, che mi aveva conosciuto molti anni prima, quando io avevo 18 anni e, soprattutto, lui aveva ancora i capelli e per giunta lunghi, si è ricordato di me. Biondi ha una memoria incredibile e io mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto. Mi ha dato un grande insegnamento, mi ha sempre detto: «Fai tutto, porta a casa tutte le esperienze». Ed è quello che faccio, non ho mai avuto un agente, i musicisti mi conoscono perché mi esibisco tanto. Questo non vuol dire che io abbia sempre detto di sì a quello che mi è stato proposto, ho sempre valutato soprattutto la qualità delle esperienze, ma non mi sono lasciato sfuggire delle occasioni.

Di recente abbiamo avuto il piacere di ascoltarti al Bravo caffè di Bologna con i Quintorigo. Come e quando è iniziata la collaborazione con loro?

È stato un passaparola, una coincidenza: i Quintorigo si esibivano a Bari per il concerto del primo maggio, stavano cercando un cantante che potesse seguirli nel progetto su Hendrix, il loro fonico mi conosceva e ha suggerito il mio nome. Ho fatto il provino e mi hanno preso, tutto qui. Ed ora sono quattro anni che giriamo l’Italia con il progetto “Quintorigo Experience”, il cui nome si rifà all’originale “Hendrix Experience”. Con i Quintorigo ho avuto il piacere di esibirmi al Blue Note di Milano, all’Umbria Jazz e all’Umbria Jazz Winter, assieme anche ad Eric Mingus, figlio del genio del jazz Charles Mingus. Ero molto nervoso, io amo il jazz ma non lo suono, quindi mi sentivo emozionatissimo. È un progetto del quale sono molto soddisfatto e sono certo che lo porteremo sul palco ancora per molto tempo.

 

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Hendrix è un argomento immortale e l’arrangiamento messo in piedi dai Quintorigo è strepitoso, non avrei mai potuto immaginare che un organico così inconsueto potesse dare questi risultati: violino (Andrea Costa), violoncello (Gionata Costa), contrabbasso (Stefano Ricci) e sassofono (Valentino Bianchi) al posto della chitarra distorta e infuocata di Jimi Hendrix! Sono dei musicisti incredibili, degli innovatori, sperimentatori e inventori di nuove sonorità, ti catturano, ti sorprendono! Suonare con i Quintorigo è un viaggio che vale la pena godere fino in fondo.

Attualmente collaboriamo assieme ad altri due progetti: “Quintorigo & Roberto Gatto play Frank Zappa”  e “Play Mingus”

Il progetto su Frank Zappa tecnicamente è molto più complesso di quello di Hendrix. Alla batteria abbiamo l’onore e il piacere di avere Roberto Gatto, fuoriclasse del jazz italiano ed internazionale. Mi sta dando delle grandi soddisfazioni, è molto bello quando chi ti ascolta ti dice: «Non conoscevo Zappa, ma dopo stasera penso che andrò ad ascoltarmelo», significa che hai toccato le corde giuste.

Adesso mi piacerebbe molto suonare in un tour all’estero con i Quintorigo. A chi non piacerebbe?

Nello stesso tempo mi sto dedicando alla scrittura di canzoni mie, mi piace molto, però scrivo tutt’altro, canto soul, blues etc. ma quando mi metto alla chitarra sono pop, non so perché! Tuttavia non mi ritengo un cantautore ma un interprete, anche se non so ancora cosa farò da grande. I musicisti restano sempre un po’ bambini, non crescono mai.

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Articolo: Maria Pia Catalani  Contributi fotografici: Maria Elia Natali

Maria Pia Catalani

Contributor - Writer

Chimico dall'anima soul, si divide fra il mondo che ruota attorno alla tavola periodica di Mendeleev e quello delle sette note. Assume quotidianamente più volte al giorno razioni massicce di musica; tutta, quella bella, e di prima qualità, ovviamente.