Ed Koch, quintessenza di New York, anticonformista e leggendario primo cittadino per ben tre mandati (dal ’78 all’89), alla domanda su cosa significasse per lui essere un vero “newyorker” rispose con una frase che rimase celebre:
«I newyorkesi camminano più in fretta, parlano più in fretta, pensano più in fretta. Non è necessario esserci nati per sentirsi newyorkesi, ma dopo sei mesi tu camminerai, parlerai e penserai più in fretta di prima. E da quel momento anche tu potrai considerarti un newyorker».
Maria Elia è una ricercatrice italiana con la passione per la fotografia e vive a New York da ormai sei mesi, a Manhattan in un piccolo appartamento condiviso nell’East Village. Ci accoglie a pochi passi da casa, sulla First Avenue, sorridente e desiderosa di trascinarci in quello che, ancora per qualche mese, sarà il “suo” ambiente.
Come descriveresti la tua attività attuale a NY?
Mi sono trasferita a NYC per completare il mio dottorato all’università di Princeton, nel New Jersey. La mia attività principale è indubbiamente quella di ricerca. Come indubbio è il fatto che questa ricerca non si fermi, ora che sono qui, all’ambito accademico. Si tratta di un percorso che si declina in ambiti differenti; l’ambizione è quella di crescere sia dal punto di vista professionale che personale.
A che progetto (fotografico) stai lavorando?
Da quando sono a NYC non posso fare a meno di rimanere estasiata da ogni angolo che vedo e da ogni storia che ascolto. È esattamente la città che uno si immagina da casa, tra i film di Woody Allen o le storie di Sex and the City. Una città che non mi ispira solo voglia di fotografare, ma anche di viverla attraverso la scrittura. Vorrei poterne cogliere la velocità e la calma, il flusso a portata costante delle mattine in metropolitana ed il meraviglioso fermarsi del tempo nei giardini segreti di Alphabet City. Vorrei poter esprimere questo contrasto e raccontare una quotidianità che spesso passa inosservata, come se non si riuscisse ad avere nella città che non dorme mai. Invece New York è piena di piccole cose, piccoli luoghi, piccoli angoli totalmente a misura d’uomo.
Se dovessimo condensare in una frase ciò di cui ti stai occupando ora, come lo definiresti?
Scoperta e cambiamento. Sono in quella fase della vita in cui sto terminando un percorso durato anni, quello universitario, e guardo al futuro con attesa, curiosità e speranza. Ovviamente anche con qualche ansia ed incertezza. Sto dedicando gran parte del mio tempo a finire il dottorato nel migliore dei modi, ma allo stesso tempo non voglio perdermi un attimo di questa città. Quindi sto scoprendo: molto circa i miei studi, tanto circa New York e gli Stati Uniti.
Il cambiamento è stata una conseguenza della scoperta, il ritrovarsi sempre più curiosi e affamati; quel sentire la necessità di non rimanere fermi, neanche su alcune vecchie posizioni; il momento di trovare quell’energia per ripartire dalle cose che non vanno o non sono andate e ricominciare dal punto in cui sei arrivato, con occhi nuovi e nuova volontà, in gran parte data da questa città. E dalle persone che la vivono.
«Se dovessi definire iN una frase questo momento mi basterebbero due parole: scoperta e cambiamento. Sono in quella fase della vita in cui sto terminando un percorso durato anni, quello universitario nel suo complesso, e guardo al futuro con attesa, curiosità e speranza».
Un dottorato in ingegneria dei materiali e un curriculum da fotografa orientato a ricercare segni dell’opera umana nella natura. Come riesci a coniugare la tua professione nei tuoi shooting fotografici?
La mia formazione, sia universitaria che culturale, ha influenzato molto il modo che ho di fare fotografia. Sono appassionata di “costruito” e di forme architettoniche; non posso fare a meno di non ricercare tutto questo nelle mie foto. E il contrasto tra il costruito e l’incompleto mi affascina molto. Mi piace vedere dei “ready made” in un groviglio di cavi elettrici, in una serie di vasi posizionati di fianco ad un portone, nella luce sottile che entra da una finestra in una banalissima stanza o nell’edera che si aggrappa ad un muro, che se ne impossessa: il simbolo di una lotta silenziosa del verde nella giungla metropolitana.
Gli shooting che ho avuto modo di vedere, legati in particolare a Bologna, mi fanno pensare ad un tuo profondo interesse all’aspetto più popolare di un luogo, in questo caso a quartieri periferici con scarso interesse turistico ma proprio per questo ricchi di storie per chi ha la profondità d’animo di andare oltre al cliché di “quartiere popolare”. Sbaglio?
No, non sbagli, sono sempre stata affascinata dalle periferie: posseggono una capacità profonda di descrivere un luogo e la maggior parte delle volte anche di creare un non luogo. Mi ricordano in qualche modo le opere di De Chirico. Immagino spesso, quando giro tra cortili interni di case popolari le sue muse inquietanti. Ripenso, con in mente gli Offlaga Disco Pax, agli studi di urbanistica, agli indici, agli standard ed alle dotazioni territoriali e cerco di capire come il tutto è stato realmente percepito e realizzato. Finiscono per essere uguali ovunque le periferie: alienanti ed estranianti.
Immagino la vita scorrere dietro la serialità delle linee quando sento l’odore di ragù misto a cous cous passeggiando tra i collegamenti, quando vedo i panni stesi e sento musiche di ogni genere: ed allora tutte queste linee diventano diverse, singolari, e ti parlano del luogo e di come questo si prenda cura dei suoi abitanti. Molto più della piazza di un quartiere o dei negozi di un centro commerciale.
Hai un tuo progetto preferito?
Sono molto legata al progetto che ho realizzato per il Quartiere Cirenaica di Bologna, che ho chiamato “Hortus Conclusus”. È stato un progetto portato avanti con calma, diluito in lunghe passeggiate serali e domenicali per mesi tra le case popolari. Ho vissuto due anni della mia vita in quel quartiere dalla personalità così forte e penso di conoscerne ogni angolo, ogni giardino segreto, ogni storia e odore. Penso che mi abbia insegnato molto riguardo all’essere costanti nel portare avanti un progetto, nel non aver fretta, nel saper aspettare e conoscere la storia e la persona giusta, cogliere lo spirito delle cose che fotografi e non solo l’attimo. L’anima e l’essenza. Se vuoi raccontare una storia devi essere il primo ad amarla, altrimenti non avrà la stessa forza.
«Se vuoi raccontare una storia devi essere il primo ad amarla, altrimenti non avrà la stessa forza».
Nelle tue fotografie di NY ritrovo un filo conduttore nel catturare luoghi, e con essi le persone, che mi riportano ad atmosfere colte nelle immagini degli anni Ottanta. Questo tuo approccio fotografico ha un’origine lontana o si tratta di un aspetto completamente nuovo del tuo stile?
Mi stupisce questa tua interpretazione e la trovo di stimolo per le mie prossime foto. Non ho ricercato uno stile diverso rispetto al solito; forse è la città che mi sta guidando. La vedo così, seguo la sua scia tra il fumo delle ciminiere per strada e la gente veloce che prende la metro. NYC è come un flusso dove immettersi, e devi seguirlo senza avere il tempo di ragionarci troppo.
Un’adolescenza ad Assisi per poi trasferirti a Bologna, città che rappresenta il primo impatto con la multiculturalità per tanti giovani che vengono dalla provincia italiana. Ora il passaggio, seppur temporaneo, oltreoceano. Come hai trovato un tuo equilibrio tra realtà con stimoli completamente differenti?
In realtà un equilibrio vero e proprio non l’ho ancora trovato, e ne sono alla costante ricerca. Riesco però a catturare piccoli momenti di stabilità ed ogni volta che li perdo affronto il cambiamento e la novità: prima ne soffro, poi mi rendo conto di uscirne arricchita. È questa voglia di andare “prima avanti e poi indietro per poi ritrovarsi ancora più avanti, di stare sul pezzo per poi abbandonarsi e stare prima bene poi male e altro e poi altro”. Quest’ultima frase me l’ha regalata un amico prima di partire per New York: ero terrorizzata e in preda a nostalgie. Ora non vorrei più venire via da qui. Ecco, questa oscillazione descrive perfettamente la mia costante ricerca di un equilibrio.
Dove vivi ora a NY?
In East Village 15th street tra 1st e 2nd Avenue.
Quali sono i dettagli che ti hanno fatto innamorare del tuo quartiere a New York? Cosa ne fa un luogo particolare per te?
Prima di abitarci non conoscevo l’East Village; NYC è enormemente vasta, diversa da zona a zona: va assaporata a piedi, con calma, anche se c’è chi sostiene che bastino tre giorni, o al massimo sette. Parlano tutti molto di Brooklyn ultimamente in Italia, come se Manhattan non avesse più nulla di affascinante da scoprire, come se fosse diventata fuori moda. La maggior parte dei racconti dei miei amici arrivano da oltre Williamsburg. Ero talmente curiosa di vedere quel quartiere che, appena sono arrivata, Manhattan l’ho quasi solo vista di striscio. Sono corsa ad attraversare il ponte di Williamsburg in una mattina di Gennaio. Avevo un’aspettativa incredibile. Ho percorso tutta la Bedford Street perdendomi per i negozietti di articoli vintage e di cibo organico stupendomi per la quantità di ebrei ortodossi, che in Italia non sono poi così comuni da incontrare. Mi sono spostata a Bushwick, poi Park Slope e Brooklyn Heights, mi sono riempita gli occhi di hipster vestiti di “fintousatosupercostoso” e vinili, di luoghi e di persone. Ma quando ho attraversato di nuovo quel ponte e riscoperto Manhattan, ho capito in quel momento di non preferire altro. Il Village soprattutto, che sia nella zona centrale, nel Greenwich Village, nel West o l’East. L’East Village è diventato la mia casa, comodo per raggiungere i mezzi pubblici e per il mio commuting giornaliero per Princeton (abito vicinissima alla fermata della metro L); comodo perché è vicino a Union Square che rappresenta per me il baricentro di Manhattan. Ci si muove a piedi nell’East Village e tutto è a portata di mano, dal calzolaio al fruttivendolo, dal negozio di design a quello dell’usato, dalla laundry a gettoni al “nails” degli asiatici, dal ristorante di classe ai bar sulla strada di St. Mark’s Place. E ti ritrovi poi la festa di quartiere sulla 1st chiusa al traffico, la signora che vende i giornali la mattina presto alla fermata della metro, il piccolissimo ristorante per sole due persone “Me&You”. oppure scopri di essere stata la vicina di casa di Astor Piazzolla, che viveva a giusto due isolati da casa mia. Senza contare altre icone come Iggy Pop, Daniel Radcliffe, Lady Gaga, Jean-Michel Basquat e tanti altri. Ed è autentico l’East Village, non è una moda temporanea, non è il frutto di una gentrificazione urbana e culturale imposta. È pura New York City. Quella vera, fumo dai tombini sulla strada compreso.
Hai qualche oggetto a cui sei particolarmente legata e che porti con te tra un trasferimento e l’altro?
Sinceramente no, non mi piace legarmi a degli oggetti, ma devo ammettere che non posso fare a meno del mio telefono e di una connessione internet. E di Instagram. Soprattutto in questo momento in cui sono distante da casa. Porto i miei amici con me, non passa giorno che non condivida un messaggio audio, una foto, un video o il percorso che faccio da casa a Penn Station prima di prendere il treno per Princeton. Non sono gli oggetti, sono le persone che porto sempre con me.
C’è un progetto fotografico a cui pensi da tempo e che riuscirai presto a far uscire dal cassetto dei buoni propositi?
Mi piacerebbe fotografare le periferie d’Italia come ad esempio il Corviale, Quarto Oggiaro oppure le Vele di Scampia. Mi piacerebbe arrivare ai capolinea delle maggiori linee metropolitane urbane e vedere cosa si trova all’uscita. Provare quel senso di straniamento misto a distacco critico e rifiuto. E poi seguire l’odore di ragù e cous cous, i colori dei panni stesi, il gracchiare delle radio. Mi piace l’dea dei capolinea. Magari comincio da New York.
Maria Elia Natali, ricercatrice universitaria e fotografa. I suoi scatti si possono visionare sul suo profilo Instagram.
Intervista: Mauro Farina Shooting fotografico: Maria Elia Natali