Mi trovo in locale colorato, con libri e riviste che ornano i vari tavolini. Come sempre si riconosce un certo via vai di suoni: borbottii di clienti, sporadiche risate sguaiate, l’abbaiare di un cane, le risposte della cameriera, la musica della radio che passa sullo sfondo e che nessuno ascolta veramente.
L’attenzione alle voci oggi non è secondaria perché incontriamo una donna che ha fatto della sua voce una professione: la lettrice.
Margherita Sciarretta, veronese di nascita, legge per passione e per lavoro. Formatasi con maestri come Franco Bignotto (Centro Italiano Musica), Isabella Caserta (Teatro Scientifico), e Gloriana Ferlini (Compagnia di Ilse) ha seguito workshop dedicati alla voce, al corpo della voce, alla lettura di poesia al microfono. Questa volta ci racconta una storia diversa: la sua.
Margherita, ti ricordi il momento in cui la tua storia di lettrice ha avuto inizio?
Ci pensavo proprio prima di incontrarci. Risale a undici anni fa, era il 2005, ed era nata da poco mia figlia. A quel tempo avevo partecipato ad un concorso poetico dedicato alla poesia erotica e alcuni miei componimenti erano stati selezionati tra i vincitori. In occasione della premiazione, mi chiesero di leggerli sul palco. Avevo in braccio la piccola, il mio corpo portava ancora i segni della gravidanza: nulla di erotico insomma! Ecco, quella è stata la prima volta che ho letto di fronte ad un pubblico. Sono poi seguite delle fortunate coincidenze: ad esempio, il Circolo dei lettori di Verona organizzava alcuni eventi e sono stata coinvolta nelle loro iniziative.
Era un momento in cui le letture pubbliche erano molto richieste, per questo la mia gavetta è stata veloce e intensa, e in breve tempo è diventata una professione. Oggi questa richiesta è molto cambiata: per questo motivo sto inventando nuove situazioni, ad esempio in posti strani o anomali, affiancando la mia voce a un accompagnamento musicale.
Quindi è stato il caso o hai sempre saputo di voler diventare una lettrice?
Ho sempre saputo che mi piaceva raccontare storie perché fin da piccola ne raccontavo un sacco, ma nel senso di fandonie! Ed erano così clamorosamente ingenue da farmi scoprire in un attimo. Di sicuro ho iniziato a leggere molto presto e a divorare in modo famelico tutto quello che trovavo in casa: avevamo una grandissima libreria e l’abitudine a leggere apparteneva già ai miei genitori.
Per coltivare la tua passione è stato incisivo il ruolo dei tuoi genitori?
Immagino che mi abbiano letto le favole della buona notte, ma a dir la verità non ne ho ricordi precisi. Ho solo il ricordo visivo di loro che leggono. Io ho iniziato a leggere storie a mia figlia fin dal principio. Quando ero incinta ho aderito al progetto “Nati per leggere”, che prevedeva la lettura durante la gravidanza.
E devo ammettere che mia figlia ha una grande attitudine all’ascolto! Mi ascolta con grandissima attenzione, al punto di accorgersi di ogni mia imprecisione appena sgarro un copione.
E a te qualcuno racconta storie?
No. Io leggo molto per me. Mi affascinano le storie, in ogni forma narrativa. Da anni non ho la televisione ma guardo moltissimi film e mi ci immergo completamente da un punto di vista emotivo.
«Mi affascinano le storie, in ogni forma narrativa. Da anni non ho la televisione ma guardo moltissimi film e mi ci immergo completamente da un punto di vista emotivo».
Poi ci sono gli audiolibri. In auto non mancano mai. Mentre guido, la musica mi distrae, il racconto di una storia no. Così, con mia figlia, ci siamo abituate agli audiolibri e abbiamo ascoltato anche grandi romanzi del XIX secolo come La Lettera Scarlatta o Cime tempestose, la cui durata complessiva sarà di almeno 48 ore!
Ma tu leggi a voce alta o a mente?
Io non leggo a voce alta per me. Leggo a mente e divoro il libro. Salto parole, e rileggo passi che mi hanno colpita. La lettura a voce alta costringe ad una attenzione fortissima. È un ingresso molto profondo in ciò che si legge e richiede lentezza. La lettura a mente è più rapida.
Il tuo è un lavoro molto particolare e, per alcuni aspetti, “ancestrale”. Ti senti un po’ un nuovo aedo o cantastorie?
[ride] Non ci ho mai pensato, in effetti. Però ho sempre l’impressione che sia un mestiere che si poggia su un istinto umano. Ad ognuno di noi, di ogni luogo ed età, piace ascoltare storie. Sono parte di noi.
«Io non leggo a voce alta per me. Leggo a mente e divoro il libro. Salto parole, e rileggo passi che mi hanno colpita. La lettura a voce alta costringe ad una attenzione fortissima. È un ingresso molto profondo in ciò che si legge e richiede lentezza. La lettura a mente è più rapida».
Mentre prepari un reading come riesci a calarti nell’atmosfera di un romanzo?
Vedendolo, lo immagino, uso la fantasia. Come un architetto da un disegno riesce a vedere la casa completata: per me è la stessa cosa. Il caso più difficile, senza dubbio, è legato alla presenza in sala dell’autore dell’opera.
Ci sono due possibilità: o ti propone indicazioni così precise che non posso che limitarmi a seguirle, oppure ti lascia completa libertà. Ma allora è ancora più difficile perché il rischio di non rispettarne la volontà c’è sempre.
Ci sono regole da rispettare nel momento in cui si legge una storia ad un pubblico?
Non proprio, ma è molto importante mantenere l’attenzione della platea. Quindi non si può proporre una lettura “piatta”, è fondamentale modificare l’intonazione o la voce, cambiandone così anche la caratterizzazione: soprattutto nel caso dei dialoghi, che richiamano l’attenzione perché coincidono sempre con uno snodo importantissimo della storia! Inoltre, non bisogna dimenticare che la soglia dell’attenzione non supera i cinque minuti. Per questo le mie letture durano mediamente tre, quattro minuti al massimo. Dopo, qualcosa deve accadere: può intervenire la musica, ad esempio. Superare questa soglia porta inevitabilmente a perdere il pubblico che focalizza la sua attenzione su qualcos’altro. Anni fa c’è stato un periodo in cui andava di moda proiettare il brano che si leggeva, su uno schermo posto dietro al lettore. Un disastro: le persone leggevano lo schermo e non ti ascoltavano più. Pare assodato: tra la parola scritta e orale vince sempre la prima.
«Per calarmi nell’atmosfera di un romanzo io immagino, uso la fantasia. Come un architetto da un disegno riesce a vedere la casa completata».
Bisogna poi anche scegliere cosa leggere a voce alta: io prediligo i racconti brevi. Ultimamente amo soprattutto i racconti americani, ad esempio Carver, Cheever, Munro, Strout, ma la mia passione è nata con Dino Buzzati: trovo che ancora oggi le sue trame siano di una potenza narrativa incredibile. Credo che leggere un passo di un romanzo lungo significhi amputarne una parte e toglierla dal suo contesto. Si rischia di impoverirlo molto! Con i racconti, invece, è meno facile, ma è sicuramente più semplice proporli ad un pubblico perché si immerge subito nel pieno della storia, accettandone il suo carattere sospeso.
La voce è fondamentale in un medium come la radio. È un mondo che ti interessa?
Molto. Ho lavorato diverse volte in radio, con letture o presentazioni di lavori. Ritengo che sia un mondo interessante, anche se devo ammettere che mi lascia qualche perplessità perché l’isolamento che implica, la totale mancanza di platea, di un feedback visivo insomma, ha qualcosa di straniante.
Sinceramente preferisco vedere le persone a cui mi rivolgo: osservare le loro facce, le loro espressioni, percependone la vicinanza fisica, vederne e sentirne le reazioni. In fondo, anche lo stare sul palco è un isolamento che non mi piace più di tanto. Io non sono un’attrice e quindi non ho bisogno di calarmi in un’atmosfera diversa rispetto a quella della platea. Al contrario, il lettore si rivolge e guarda negli occhi il suo pubblico, che secondo me dovrebbe circondare chi legge.
Per il tuo lavoro è fondamentale anche la musica o sbaglio? E a proposito di musicalità, per essere una lettrice bisogna avere una bella voce?
Si assolutamente. Poi servono molti studi di dizione e intonazione, ma il timbro è fondamentale. All’inizio, ascoltare la mia voce registrata non era certo piacevole. La trovavo orribile! Inizi a pensare cose come “sarebbe più bella un po’ più bassa”. Ma adesso mi ci sono abituata. Diciamo che non mi stupisce più e l’accetto serenamente (o quasi!).
In effetti, i miei testi possono ricordare degli spartiti musicali. Per esempio, ci annoto alcune notazioni ritmiche e le pause. Inoltre, lavoro spesso con musicisti che creano un “tappeto sonoro” alle mie letture – una sorta di colonna sonora – che deve essere in armonia con la mia voce e con il contenuto di ciò a cui dò voce. Richiede molto lavoro ed è davvero appassionante. Un bel progetto con un musicista, che mi piace ricordare, risale a qualche anno fa e si chiama “Rumore o voce”. Ci chiedevamo: “può una voce assomigliare ad un rumore o viceversa?”.
Credi che lo scenario culturale di Verona sia un territorio arido o, al contrario, ne sei soddisfatta?
No, non è arido. In fondo le offerte culturali ci sono, soprattutto negli ultimi anni. Più che altro il suo limite è costituito dall’essere confinati in una nicchia. Vedo sempre le stesse persone a tutte le iniziative, in una sorta di dinamica autoreferenziale. In questi anni non ho notato un’espansione. Frequento cineforum, teatro, cinema, festival ed eventi proposti in città e i visi sono un po’ sempre i soliti. Lo stesso vale per i miei reading. Sul perché di questi “soliti noti”, non saprei. Forse si è creata una sorta ideale di “compagnia” che ha il piacere di fare le stesse cose sempre insieme.
Sei molto attiva su Facebook. Da anni, infatti, hai l’abitudine di pubblicare, alle sei e mezza di mattina, un brano d’autore accompagnato da una immagine. Cosa ti ispira nella scelta del post?
Lo scelgo a gusto mio. Possono essere poesie, passi di romanzi, citazioni da film e ci associo un’immagine. Devo ammettere che ha successo, si vede che piace come lo faccio, anche se non sono certo l’unica a proporlo sul web. Tra l’altro, internet è un mondo molto veloce, dove l’attenzione cala rapidamente: oggi il post può aver ricevuto centinaia di like, ma domani non se lo ricorda nessuno.
Infine, cosa ne pensi degli storytellers?
A tutti gli effetti è un modo di narrare molto diverso dalla lettura ad alta voce. Sul fatto di uscire dal copione, ci sto lavorando con la mia psicologa [ride]. No, seriamente, ci sto pensando. Se avessi una storia potrei, in effetti, provare a raccontarla con parole mie… Magari arriverà.
E chissà, magari sarà un altro capitolo della storia di Margherita Sciarretta.
Articolo: Martina Dal Cengio Shooting fotografico: Stefano Tambalo