Questa intervista risale a qualche mese fa, quando il mondo si trovava ad attraversare una fase di profonda incertezza. E oggi che, al netto di altre questioni geopolitiche, è ripartito, facciamo il punto con una designer che come nessuno interpreta l’accelerazione contemporanea, quel mood che vede le discipline spingersi oltre, ibridarsi, rompere i confini. Per produrre meraviglie.
Bellissima, bravissima, richiestissima. Elena Salmistraro è stata appena proclamata “Best designer of the year” da Frame Magazine. Un premio che sancisce globalmente il successo che l’ha accompagnata per il 2021-2022, anni nei quali ha realizzato progetti iconici per brand altrettanto iconici.
Qualche esempio? Da Apple a Disney, da Vitra a Bosa, Nike, Driade ed Alessi, passando per Natuzzi e Cedit, Technogym, Scapin e Cappellini, solo per citarne qualcuno.
Che si tratti di tappeti, sedute, gioielli, borse, scarpe, vasi, mobili contenitori, installazioni, non importa: la sua produzione di oggetti spazia e si contamina, rimanendo però sempre riconoscibile.
“È come se l’arte e il design si fondessero in un’unica disciplina, superando vecchie concezioni ortodosse e restrittive”.
Può piacere o non piacere, ma ogni suo lavoro, puntalmente, è un successo di pubblico e critica. Forse per questa sua smisurata fantasia, o per il modo in cui proietta la sua creatività ed emotività nei pezzi che disegna. Possiamo affermarlo: Elena Salmistraro è una trend setter. Anzi, è una shaper, vale a dire tra coloro che grazie al lavoro che svolgono sono capaci di plasmare il mondo intorno, di definire tendenze, di vedere i cambiamenti prima degli altri.
Elena, presentati sinteticamente (se ancora ce ne fosse bisogno)
Sono una designer, nel senso più ampio del termine. Con il mio studio ci occupiamo principalmente di product design, ma il nostro lavoro spazia dalla grafica all’installazione, passando per la moda e l’illustrazione. Mi affascinano molto le ibridazioni e credo che siano un ottimo modo per rappresentare la contemporaneità e proprio per questo cerco spesso di lavorare su quelli che sono i confini tra le varie discipline.
Colore, pattern, materia: raccontaci da dove arrivano il tuo stile e le tue collaborazioni creative
Da una formazione artistica, ho frequentato prima il liceo artistico, per poi laurearmi sia in fashion che product design al Politecnico di Milano.
Da piccola, quando ho iniziato a disegnare, l’ho fatto perché avevo la necessità di esprimermi, era la mia valvola di sfogo – e probabilmente lo è anche adesso – è il mezzo di comunicazione che preferisco. Con il tempo mi sono resa conto che i miei disegni si orientavano sempre più verso la descrizione di spazi, di luoghi carichi di oggetti e creature immaginarie, una naturale evoluzione che mi ha poi portato a riconoscere e individuare “elementi”, che ho imparato a codificare e sviluppare in un vero e proprio linguaggio espressivo che mi supporta e accompagna nella definizione dei miei progetti.
Un percorso lungo, di maturazione sia professionale che personale, in cui ho compreso che durante l’atto del disegno, della progettazione, anche inconsciamente, trasmettiamo parte di noi stessi all’oggetto: esiste uno scambio tra autore ed opera che è impossibile nascondere o negare. Questa consapevolezza mi ha permesso e invogliato a lavorare nella definizione di un segno personale altamente riconoscibile, fatto appunto di colori e pattern, che mi permettesse, attraverso un processo empatico, di descrivere e formalizzare emozioni e racconti. È come se l’arte e il design si fondessero in un’unica disciplina, superando vecchie concezioni ortodosse e restrittive.
Intersezioni disciplinari, tangenze, sovrapposizioni, cortocircuiti, nuovi paradigmi. Questa complessità sembra essere parte del tuo processo creativo, con realizzazioni che spaziano dai mobili alle scarpe, dalle borse agli imbottiti, dai rivestimenti alla tecnologia (penso al recente progetto per Huawei). Pensi questa sia una tendenza di tutta la tua generazione di designer?
Parlare di tendenze rispetto al design mi spaventa sempre un po’, ma capisco perfettamente cosa intendi. Credo che la mia generazione, a differenza delle precedenti, abbia abbandonato completamente il concetto di stile, di gruppo, di movimento, a favore di una sorta di individualismo, un’autorialità progettuale, fatta di contaminazioni e legata agli insegnamenti del passato, ma comunque sempre molto autonoma e consapevole, indipendente e non subordinata.
“Credo che la mia generazione, a differenza delle precedenti, abbia abbandonato completamente il concetto di stile, di gruppo, di movimento”.
Questo slegarsi dall’ortodossia della disciplina – che è già di suo un cortocircuito – fa sì che aumentino le sovrapposizioni e le intersezioni, che sono tra l’altro sempre esistite. Credo che l’attuale panorama del design internazionale fortunatamente non abbia una unica direzione, ma una molteplicità, una vastità di vedute ed intenti. Cosa che se da un lato può apparire come un mare confuso e privo di direzione, dall’altro è una fonte inesauribile di stimoli e possibilità.
Design di Prodotto: la tua produzione è vasta. Raccontaci 3 progetti significativi.
Devo obbligatoriamente partire dai Primates, una collezione di vasi che ho disegnato per Bosa Ceramiche nel 2017. È il primo progetto dove sono riuscita a mettere in pratica quello che intendo per ibridazione; ho disegnato appunto dei vasi che ricordano vagamente le teste di moro Siciliane, ma che ritraggono degli animali primitivi, utilizzando come linguaggio stilistico, lo stesso che fino al quel momento utilizzavo solamente per i dipinti e le illustrazioni, quindi un linguaggio molto pop, flat, dove non esiste tridimensionalità e dove i volumi e i colori sono netti, privi di ombre (che nella trasposizione tridimensionale compaiono come se il disegno bidimensionale prendesse vita).
Poi sicuramente arriva Chimera, la collezione di lastre in grés porcellanato realizzata per Cedit-gruppo Florim, dove racconto in quattro capitoli differenti quelli che sono i miei punti di riferimento nella definizione di un progetto: Ritmo, Empatia, Radici e Colore. Macro capitoli che vengono sviluppati e approfonditi soprattutto attraverso l’utilizzo di texture tattili innovative, di colori e linguaggi differenti. Una collezione stratificata, densa, contemporanea.
E infine Posidonia, disegnata per Natuzzi, dove cerco di raccontare la Puglia e la mediterraneità attraverso il racconto del mare. È un progetto dove ho cercato di sommare tutti gli elementi in mio possesso e soprattutto di confrontarmi con una scala nuova, rispetto a quella a cui ero abituata. Penso ad esempio al divano reclinabile, dove ho gestito dimensioni e tecnologia senza dimenticare la componente estetica ed onirica.
“Il mio interesse si rivolge principalmente ai giovani, ai nuovi approcci, e ai nuovi punti di vista, è lì che prendono vita le sperimentazioni, che l’incoscienza aiuta a superare i limiti”.
Chissà che lavoro sognavi di fare da piccola. Chi sono, oggi, le tue ispirazioni?
Quando ero bambina sognavo di fare la pittrice. Ricordo mio nonno che mi portava a vedere le mostre in giro per Milano o le meraviglie della pinacoteca di Brera e avrei voluto essere io la pittrice di quelle opere. Oggi non sono proprio una pittrice, ma comunque mi ritengo molto fortunata nell’essere riuscita a fare ciò che amo e che credo di riuscire a fare bene.
Non ho particolari punti di riferimento artistici, se proprio devo guardare e scoprire qualcosa, il mio interesse si rivolge principalmente ai giovani, ai nuovi approcci, e ai nuovi punti di vista, è lì che prendono vita le sperimentazioni, che l’incoscienza aiuta a superare i limiti.
Il tuo stile non può essere certo definito minimalista. Che valore dai alla decorazione?
La decorazione è parte integrante del mio lavoro, mi piace dire che è funzionale al progetto. Non è semplice aggiunta, non è sterile abbellimento, ma è parte di una complessità stratificata.
Sono convinta che non si debba aggiungere solo per il piacere di farlo, per questo nei miei lavori ogni tratto, ogni segno, ogni linea, ha la sua giusta e giustificata collocazione. I pesi, le valenze sono molto importanti all’interno della composizione generale e spesso puntinare una superficie mi permette di renderla più evidente, di esporla, di attribuirle un peso specifico, un significato, una luce differente.
L’arricchimento delle superfici è anche una necessità stilistica che deriva dal mio modo di disegnare, che è molto simile a quello dei fumetti e dove l’assenza di ombre viene colmata con pattern e tratteggi.
Per quanto riguarda invece gli spazi intesi come installazioni il processo compositivo è molto simile. Amo gestirli nella loro interezza e nel pieno della loro luce, come se fossero dei contenitori, degli scrigni, perché altrimenti si rischierebbe confusione e sovrapposizioni che andrebbero a rendere meno evidente il contenuto.
Se non vivessi a Milano, la città del design per eccellenza, dove altro ti piacerebbe lavorare e perché?
Ho sempre sognato di vivere a New York, ma per ora l’ho solo visitata da turista.
Il mio lavoro si nutre di energia vitale, ho bisogno di osservare e comprendere quello che sta accadendo oggi, per poterlo poi raccontare ed elaborare, e credo che non esista un posto migliore al mondo per fotografare la realtà. Se come dicevi il mio lavoro è frutto di tangenze, sovrapposizioni, cortocircuiti e nuovi paradigmi, New York è in assoluto il posto che ha esaltato e reso uniche queste caratteristiche, facendone il suo punto di forza.
Futuro prossimo: qual è il tuo sogno nel cassetto?
Il mio sogno nel cassetto è sempre quello di andare oltre, di fare qualcosa su cui non mi sono ancora confrontata, ricercare la novità per evitare di ripetermi e annoiarmi, che è il mio incubo peggiore. Credo che il giusto sogno sia qualcosa di grande, quasi utopico, tipo quello di confrontarsi con progetti ad una scala superiore, che vadano oltre l’installazione spaziale e che magari che tocchino l’architettura o la città.
Articolo: Giulia Mura
Foto: Giulia Riva, Juliano Araujo, Virginia Bettoja