Livio Suppo è stato prima direttore Marketing Ducati Corse e poi team manager per la stessa casa motociclistica. Lo abbiamo incontrato a EICMA per farci raccontare la sua entusiasmante storia.
“Certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano.” Penso a questo vendittiana citazione non appena Livio Suppo mi si palesa di fronte salutandomi sorridente, proprio sotto l’insegna dello stand Ducati ad Eicma, il Salone del Motociclo o altrimenti definito come la più importante esposizione mondiale a tema moto. Livio indossa una camicia bianca, una sorta di uniforme aziendale dove spicca il logo della Casa di Borgo Panigale affiancato a quello di Thok, ovvero la sua nuova e prima avventura imprenditoriale a due ruote. Gli chiedo a bruciapelo che sensazioni prova ad essere tornato a “vestire Ducati” dopo tanti anni. «Sì, fa un po’ impressione anche a me, ma non ti nego che la cosa mi faccia estremamente piacere. Sta a testimoniare che, pur avendo in passato preso direzioni e scelte diverse, la stima, il rispetto e l’apprezzamento reciproco tra me e Ducati, e in particolare con Claudio Domenicali, non sono mai venuti meno. E così, rieccomi qui».
Livio Suppo può essere considerato a tutti gli effetti un “artefice di situazioni”, vincenti nella stragrande maggioranza dei casi, e come l’uomo delle prime volte. È stato l’uomo che ha convinto Ducati a entrare in MotoGp nel 2003, il primo team manager a vincere il Mondiale con la casa di Borgo Panigale, il primo non giapponese al timone dello squadrone Honda HRC. La sua avventura nel mondo delle moto, però, risale a qualche anno prima, nel 1995. «All’epoca mi occupavo di comunicazione per alcuni brand del gruppo Benetton, che in quell’anno era diventato fornitore ufficiale dell’abbigliamento per il team HRC. Nessuno nel gruppo, a parte il sottoscritto, aveva la benché minima conoscenza del mondo delle due ruote. Per me, invece, che in moto ci andavo da quando ero bambino, quella era un’occasione da non perdere e mi candidai per quel ruolo».
Da lì in poi una carriera in ascesa: prima seguendo il team HRC ufficiale griffato Benetton della classe 250, per poi approdare in Ducati come Direttore Marketing del Reparto Corse, allora concentrato a competere nel mondiale Superbike. Qualche anno più tardi fu proprio Livio Suppo il promotore dell’ingresso di Ducati in MotoGp dando via al progetto Desmosedici, progetto che ha visto – momentaneamente – il suo culmine nel 2007 con la vittoria del Mondiale 2007 con Casey Stoner in sella e Livio stesso ai box come team manager.
La nostra chiacchierata non poteva che partire dagli inizi di questa avventura nel mondo dei motori.
Quasi un quarto di secolo a stretto contatto con moto, paddock, team e, non ultimi, piloti. Chi era il Livio Suppo del 1995 e chi è il Livio Suppo di oggi?
«Si tratta della stessa persona che è cresciuta e ha avuto la grossa fortuna di avere una sola costante nella vita: quella di poter coniugare la propria passione con il lavoro di ogni giorno. Anche adesso che non faccio più parte del mondo delle moto, grazie a Thok lavoro in un ambito che mi piace e che ha sempre a che fare con le due ruote. L’idea di investire le mie energie in un brand di biciclette elettriche mi è venuta proprio perché mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di mio anziché gestire progetti di grandi aziende come fossero miei. Certo, la vita ti cambia, non potrebbe essere altrimenti: succedono cose belle e brutte, ho sicuramente più esperienza data dall’età ma la voglia di buttarsi nelle mie passioni è rimasta inalterata.
Tu sei l’uomo delle prime volte. Primo a portare la Ducati in Moto Gp, primo occidentale a condurre come team principal il team Honda HRC. Quali analogie e quali differenze hai riscontrato in queste due esperienze?
«Sono state due esperienze molto diverse, la prima per certi versi più appassionante. Sono entrato in Ducati nel ’99 provenendo da una forte esperienza nell’ambito del motomondiale, unico in azienda a conoscere quell’ambiente. In quel momento si parlava dell’arrivo dei motori a 4 tempi nella classe regina, che allora era la 500. Ho iniziato a sognare di far diventare la Ducati come la Ferrari delle due ruote, facendola gareggiare in quella che è a tutti gli effetti la Formula Uno per il motociclismo. Ho vissuto un sogno grazie a un’idea che è diventata realtà nel 2003, quando abbiamo esordito ottenendo risultati incredibili grazie a una moto, la Desmosedici, progettata da Filippo Preziosi: un missile capace di dare 10 km orari a tutte le altre moto del lotto. Un debutto indimenticabile: podio all’esordio, vittoria dopo cinque Gran Premi con Capirossi. Sono stati anni intensissimi in cui non c’era letteralmente tempo di pensare ad altro.
Anni culminati con la vittoria del titolo mondiale nel 2007 con Casey (Stoner, ndr), ma dove non sono mancati gli alti e i bassi. Nel 2004, dopo una stagione molto difficile con solo due podi conquistati, corremmo un rischio molto grosso cambiando fornitore di gomme, passando dalla Michelin, che allora era la marca vincente, alla Bridgestone. Una decisione che presi io nella piena consapevolezza che fosse molto rischiosa al punto tale da dire a mia moglie di aver fatto prendere una decisione a Ducati di importanza tale che se fosse andata male avrebbero dovuto licenziarmi in tronco.
Fortunatamente quella scelta ha contribuito a portarci sul tetto del mondo, insieme ad una moto fantastica e a un pilota fantastico come Stoner.
«Mi assunsi la responsabilità di una decisione molto rischiosa, al punto tale da dire a mia moglie che se fosse andata male Ducati avrebbe dovuto licenziarmi in tronco». Livio Suppo
L’occasione di lavorare per Honda, e quindi per la concorrenza, si è presentata qualche anno dopo, nel 2010, grazie a Shuei Nakamoto, all’epoca vicepresidente di Honda HRC: un giapponese anomalo che dopo avermi conosciuto mi chiese di andare a lavorare per lui. HRC è qualcosa di speciale, è la squadra corse più grande e più titolata del mondo e in quel periodo si trovava a secco di vittorie. Ricordo perfettamente a tal proposito la frase di Nakamoto durante uno dei nostri primi incontri: “It’s time to wake the Honda HRC”.
Oltre al mio, l’arrivo di Casey Stoner in Honda ha permesso di tornare ai fasti di un tempo con il titolo del 2011. Ho avuto poi la fortuna di firmare un contratto con un giovane ragazzino di belle speranze che si è poi rivelato uno dei piloti più forti nella storia e che risponde al nome di Marc Marquez. Insieme a Marc abbiamo conquistato quattro titoli mondiali in cinque anni nel periodo cha va dal 2013 al 2017.
Alla fine di quel quinquennio mi sono sentito svuotato dentro. Nakamoto, il mio mentore giapponese, era andato in pensione e ventidue anni di vita passata nei paddock di tutti i continenti mi sono sembrati sufficienti portandomi a fare una scelta, quella di abbandonare quel mondo».
Concentriamoci un momento sulla tua esperienza in Honda HRC. Come è possibile coniugare l’estro, la creatività, il particolare approccio italiano alle problematiche rispetto alla programmazione sistematica e all’apparente rigidità del metodo giapponese?
«I giapponesi hanno un imprescindibile necessità di affidarsi alla programmazione, vanno nel panico quando una cosa non è programmata, situazione nella quale invece gli italiani danno il meglio di sé perché abbiamo questa capacità innata di risolvere i problemi grazie alla creatività. Tuttavia, e il palmares lo dimostra, le cose hanno funzionato a dovere e i risultati sono arrivati».
Quella di Ducati, invece, è proprio una storia dove la creatività nel risolvere i problemi ha fatto la differenza. Il Mondiale del 2007 venne vinto grazie ad una moto, la Desmosedici, della quale (cito a memoria) “vi era la concreta possibilità che non arrivasse in fondo alle gare”. Come descriveresti quell’annata incredibile?
«Ducati in Moto Gp è sempre stata la storia di Davide contro Golia. Eravamo un’azienda che aveva bisogno degli sponsor per gareggiare e quindi, proprio per questo, era obbligata a fare risultato. Quando si è così in ballo si deve essere naturalmente portati a correre dei rischi e a provare nuove strade. Filippo Preziosi mi ripeteva sempre che seguire le Case giapponesi nello sviluppo della nostra moto non ci avrebbe mai consentito di batterli, dovevamo escogitare qualcosa di diverso, provare e riprovare fino a trovare la strada giusta. Ecco, quel “diverso” si è concretizzato nel progetto di una moto estrema come la Desmosedici 2007, nel dotarsi di gomme diverse dalla concorrenza come le Bridgestone e affidate il tutto nelle mani e nel polso di un pilota velocissimo, ma che cadeva tanto.
Quel pilota era Casey e si è trasformato in sella alla Ducati. E la Ducati con lui ha raggiunto un traguardo impensabile fino a pochi anni prima».
Se tu dovessi cristallizzare nella memoria, nel bene o nel male alcuni momenti della tua carriera, quali sceglieresti?
«Motegi 2007 è il primo che mi viene in mente, quando Casey Stoner ha tagliato il traguardo del Gran Premio del Giappone vincendo il primo mondiale, per lui e per la Ducati. In quel momento mi sono reso conto che tutti quegli anni di sacrifici e di rischi avevano avuto un senso. E in questo ricordo una parte importante la riveste Filippo Preziosi. Filippo è stato un esempio professionale e umano impareggiabile, per tanti anni ha passato le serate in ufficio nonostante un incidente lo avesse costretto su una sedia a rotelle. Ecco, anche il fatto di essere stato per tanto tempo a stretto contatto con una persona così determinata mi ha dato un coinvolgimento emotivo difficilmente eguagliabile, che mi ha portato a vivere al massimo quel momento.
Il momento più difficile invece l’ho vissuto qualche tempo dopo, nel 2009, la stagione in cui Casey non era fisicamente a posto. Ero seriamente preoccupato perché non si capiva cosa avesse e il suo carattere non mi aiutava a comprendere. Il title sponsor del team era molto arrabbiato e non si faceva problemi a dirlo. Era un periodo difficile perché difendevo Casey e mediaticamente era l’avversario di Valentino e quindi, proprio in virtù di questa rivalità, era facilmente attaccabile. Ricordo che la gara più difficile fu a Brno, Gran Premio che Casey saltò e tutta la stampa si chiedeva il perché.
«I ricordi brutti sono tutti indissolubilmente legati agli incidenti e alle perdite, come la scomparsa di Marco Simoncelli». Livio Suppo
Mi trovai da solo a difendere il nostro pilota che era all’altro capo del mondo. Durante le interviste di rito fioccarono le domande e una si riferiva senza troppi complimenti al fatto che Casey non avesse avvertito della sua assenza nemmeno al suo main sponsor Nolan. In un nanosecondo mi trovai a dover trovare una risposta che potesse, in qualche modo, giustificarlo. Quella la ricordo come la gara più difficile in assoluto.
I ricordi brutti, invece, sono tutti indissolubilmente legati agli incidenti e alle perdite, come la scomparsa di Marco Simoncelli. Ogni volta che succede qualcosa sono quelli i giorni in cui ti chiedi che senso ha il lavoro che stai facendo. Sui pass di ogni gara della Moto Gp trovi in bella vista la frase “Motorsport is dangerous”. È una verità sacrosanta ma che sovente tendiamo a dimenticare. Enzo Ferrari nel suo libro “Piloti che gente” raccontava un’epoca di temerari del rischio, dove ogni gara rischiava di contare diversi caduti. Ricordo una cena in compagnia di grandi campioni del passato dove Giacomo Agostini e Angel Nieto ricordavano i tempi andati menzionando tutti coloro che non erano più in vita. Pensai che loro non fossero solo due grandi campioni, ma anche due sopravvissuti. A quei tempi non sarei mai riuscito a fare il mestiere che ho fatto per oltre vent’anni».
Dal punto di vista dei risultati e delle vittorie sei legato a due campioni mondiali come Marc Marquez e Casey Stoner. C’è qualche altro pilota a cui sei stato particolarmente vicino dal lato umano?
«Sì, si tratta di Niki Hayden. Abbiamo lavorato insieme solo un anno, ma siamo diventati molto amici. Era una persona speciale, un pilota anomalo perché amatissimo, ha vinto un titolo battendo Valentino Rossi all’ultima gara, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Ho sempre pensato che fosse impossibile diventare amico di un pilota con cui lavori perché prima o poi arriva un momento in cui l’azienda che tu rappresenti ha delle necessità diverse da quelle del pilota e si rischia di fare dei pasticci.
Io con Niki ho sempre avuto un ottimo rapporto e siamo diventati amici dopo aver lavorato insieme. Si fidava di me e mi chiedeva consigli. Quando ero alla Honda nella stagione 2012 gli suggerii di rimanere in Ducati puntando al team Superbike perché sarebbe potuto diventare anche un fantastico testimonial per Audi, ma lui aveva questa passione per la Moto Gp e decise di rimanere gareggiando con una Honda satellite.
Quando lo chiamai per sostituire Pedrosa dopo un suo infortunio nel 2016, alla fine della gara mi regalò il casco con una dedica scritta. “Grazie per essere sempre stato dalla mia parte”.
Qual è la lezione che hai imparato in questi anni di carriera e cosa ti sentiresti di consigliare a chi è in grado di ritrovare nella tua storia un elemento di ispirazione per il proprio futuro?
«Mia figlia oggi ha diciassette anni. Il messaggio che cerco di trasmetterle è che nella vita bisogna cercare di inseguire i propri sogni.
Fin da universitario sono sempre stato convinto della necessità di lavorare, ovvero di passare la maggior parte delle ore di una giornata facendo qualcosa che mi piacesse. Non avrei mai potuto fare altrimenti, costringendomi ad una vita alienante in attesa del weekend. È fondamentale provare a fare le cose che ci piacciono e, soprattutto, credere in qualcosa. Perché quando credi e lavori duramente per raggiungere i tuoi obiettivi, i risultati non possono che arrivare. E i risultati sono, spesso, i sogni che hai inseguito per anni».
Articolo: Mauro Farina Shooting: Adriano Mujelli Foto d’archivio: Gigi Soldano