Giancarlo Perbellini, chef pluristellato, ci ha aperto le porte del suo ristorante veronese. Dove abbiamo scoperto che un piatto viene assaggiato anche cento volte, prima di entrare nel menu.
Verona, Piazza San Zeno, cuore antico e popolare di una città bella nei minimi dettagli.
In pochi sanno, al di fuori delle sue mura, che questa è da sempre per i Veronesi la piazza dell’accoglienza, da quel giugno 1531 in cui la popolazione, provata da una lunga carestia, venne soccorsa dal Podestà e da alcuni alti cittadini. Qui nacquero il Carnevale veronese e la sua maschera generosa, Papà del Gnoco, che per secoli si eleggerà sotto il rosone della Basilica.
Sei a un passo da questo capolavoro del Romanico italiano, oggi, cinquecento anni dopo, e hai davanti a te la porta di un ristorante. Un ristorante premiato con due stelle Michelin, che ha assorbito l’atmosfera cordiale di questo luogo e fatto dell’ospitalità e della semplicità la sua punta di diamante. La sfida più alta.
Suoni il campanello, e ti accoglie Giancarlo Perbellini in persona, padrone di casa e Chef pluristellato.
«Casa Perbellini si chiama così perché la gente aveva paura di varcare la soglia di locali come questo e io volevo avvicinarla. Casa fa sentire in famiglia. Il fatto che apparecchiamo la tavola quando il cliente si siede, e non prima, rompe un sacco di schemi. A Casa Perbellini tutto sembra più semplice e invece per noi è tutto più complicato».
In effetti, tu entri e il personale, quasi danzando, apparecchia in diretta con eleganza e ordine. Ti senti avvolto da gesti gentili e chiamato quasi per nome. Accortezze che lo scorso anno son valse alla maitre Barbara Manoni il premio per il miglior servizio di sala del Paese, secondo la Guida Michelin.
«Se non hai una squadra affiatata, questo risultato è impossibile» ci spiega Giancarlo. «E se sbagliamo, sbagliamo, davanti al pubblico». Sì, perché la cucina è a vista e il nuovo layout del locale abbatte le barriere tra chi sta in cucina e chi sta in sala. I movimenti dei cuochi sono netti, veloci, ripetuti, la concentrazione si sente, ronza tra i discorsi fatti ai tavoli, l’atmosfera è ipnotica. Ora capisco perché Giancarlo Perbellini parla di “pubblico” anziché solo di “clienti”. Difficile dire se sei di fronte a una performance di alta cucina o un atto di teatro danza. È un vero spettacolo.
«Ogni piatto è una cosa a sé. Sono equilibri. Per questo assaggiamo i risotti in tre». Giancarlo Perbellini
«Creare una squadra in cucina è fondamentale e non è facile, il ritmo di lavoro è altissimo ed essere concentrati tutti insieme per molte ore di seguito, è uno sforzo notevole. Il vero problema sta nella capacità di replicare perfettamente, un numero infinite di volte, un piatto. Quando cerchi un collaboratore attento, in realtà cerchi qualcuno che sappia replicare alla perfezione».
Un replicante? Chiedo… Mi va di scherzare. Sono proprio a mio agio qui, lui ride. Iniziamo la nostra intervista così.
«Beh no, non proprio un replicante. Diciamo che ci sono cose che faccio solo io: il foie gras, ad esempio, perché difficilmente lo sbaglio. E la mantecatura dei risotti. Il wafer lo fa sempre la stessa persona, ho proprio una mania su questo, il biscotto deve essere fine il giusto. Ora c’è un’altra persona in affiancamento che si allena da due mesi, ma non è ancora pronta, ci arriverà».
Hai citato il wafer al sesamo, formaggio caprino all’erba cipollina e tartare di branzino, una ricetta storica di Casa Perbellini, lo porti con te dal tuo primo ristorante di Isola Rizza. È mai cambiato negli anni?
«Il wafer è la sintesi della mia idea di gusto. Ha 18 anni, è nato da solo, perfetto già dal primo assaggio. È un insieme di entrate e uscite di gusti, non è facile farlo. La liquirizia entra subito all’inizio, poi arriva il dolce, il sesamo e l’acidità del caprino, alla fine torna la liquirizia persistente. La liquirizia, a dire il vero, l’ho aggiunta dopo, perché a un certo punto a mio avviso mancava una scintilla, un’emozione».
Come si studia una sequenza di entrata?
«Assaggiamo cento volte, fino a non sentire più. E decidiamo dove aumentare e dove diminuire, per valorizzare i gusti. Ma è complicato, perché le percezioni delle persone sono tutte diverse, per alcuni quello che fai è giusto, per altri no. Già io e il mio secondo sentiamo cose diverse. Ogni piatto è una cosa a sé. Sono equilibri. Per questo assaggiamo i risotti in tre, ad esempio».
Quindi sei disposto ad accogliere idee diverse dalle tue, piccoli cambiamenti?
«Certamente. Il mio Sous Chef Marco ha caratteristiche opposte alle mie. Per la prima volta non è uno che ha iniziato lavorando con me, e l’ho scelto per questo: io invecchio e non ho una concezione moderna, per quanto sia attento al mondo. Sono considerato un classico. Non riuscirei mai a impiattare fuori dal bordo. Lui ha una concezione di design, più dei paesi nordici, tiene molto all’impiattamento, è “marchesiano” in questo senso. Per me quello che conta maggiormente, invece, è il gusto. È molto lento il percorso per integrarsi, ci si studia a vicenda».
«Alcuni piatti li ho pensati mentre andavo a correre. Altri sono nati da un piatto improvvisato per il personale». Giancarlo Perbellini
Parli di piccole manie. Sono davvero così piccole?
«Il 99% degli Chef ha l’ossessione dell’impiattamento, che io non ho. Io ho una vera e propria ossessione del gusto, tutto deve essere perfetto e sempre uguale. Ma è difficile standardizzarlo, trasmettere la sua replicabilità. Non solo perché chi compone il piatto ha testa e mano diverse. Pensa solo a quanto sono diversi tra loro gli ingredienti, da una settimana all’altra. L’asparago inizialmente è campano, il bianco fino a metà maggio non sa di niente, ai primi di giugno lo prendi in Trentino. Siamo cuochi artigiani. Facciamo con quel che c’è e per questo io sono maniaco sulla ricerca del prodotto. Devi conoscere il periodo dell’anno, la settimana, il luogo perfetto in cui andarlo a reperire. E non è facile, cambiano le temperature, cambia tutto».
Quindi, segui la stagionalità del prodotto, non una tua filosofia?
«La puoi avere una tua filosofia, ma se segui solo quella rischi di fare cose che non hanno senso. Puoi avere una filosofia nel concetto, nella costruzione del piatto, ma non di un ingrediente, perché l’ingrediente lo devi interpretare. Devi capire quello specifico che hai lì in quel momento, che non è uguale a quello della settimana precedente».
Lo Chef Gualtiero Marchesi a cui accennavi prima, parlava proprio di interpretazione, di esecuzione e composizione di una ricetta da parte dello Chef, quasi come fosse un musicista. Ennio Morricone, parla della musica come della matematica: non esiste l’ispirazione, esiste lo studio attento nella costruzione e nel bilanciamento delle parti. Sei d’accordo con lui?
«Sì certamente, non inventi niente, puoi deviare leggermente, ma lo spartito ha le sue regole. Tu sai che wasabi e pisello stanno benissimo insieme. Usare il wasabi è come mettere il dado, che per noi Chef non esiste. Cren e wasabi, come la parte formaggiosa, la crema di parmigiano, danno spesso in un piatto la rotondità. Anche se in quarant’anni di esperienza ho visto molteplici modi di fare un piatto, non solo lo studio a tavolino e l’assaggio. Io, ad esempio, alcuni piatti li ho pensati mentre andavo a correre. Altri sono nati da un piatto improvvisato per il personale, con quel che c’era in cucina. Juan Le Pins prima di preparare un piatto lo disegnava. Ex pasticcere, perfezionista. Se non facevi come il disegno erano guai».
A proposito Juan Le Pins, hai lavorato in Francia con lui e Bernard Pacaud, per tornare poi in Italia al San Domenico di Imola. Eterna diatriba tra cucina italiana e francese.
«A San Domenico ho trovato qualcosa che nel resto d’Italia non c’era, la grande brigata di cucina importata dalla Francia, ma con un grande maestro italiano alla guida, Nino Bergese. Un mix di cose per cui ho cominciato a capire cos’era la grande cucina gourmet. Nella carriera di uno Chef, però, la Francia è ancora un passaggio obbligato, perché il rigore e la perfezione che trovi lì non ci sono da nessun’altra parte. La dadolata come la fanno loro, precisa al millimetro, la salsa di carne, i brodi, i fondi li impari lì. In Spagna c’è creatività. In Italia abbiamo una varietà straordinaria di prodotti per cui ognuno ha un’interpretazione diversa della cucina, e la cucina cambia da paese a paese. Questa è la nostra forza, una diversità unica al mondo sia per i prodotti che per le ricette. La debolezza è che non riusciamo a esportarla perché non facciamo abbastanza promozione».
Tu però oltre ad essere Chef, sei anche imprenditore e divulgatore. Hai vinto il primo premio nella categoria “Internazionalizzazione” ai Foodcommunity Awards 2018, gli oscar dedicati alle eccellenze imprenditoriali dell’enogastronomia. Con più di otto ristoranti tra Italia ed estero, uno perfino in Bahrein. Come leghi in questo caso la cucina al territorio?
«Portando ricette già costruite, ma che si evolvono. Adattarsi a dove sei però, a volte, è un po’ complicato: in Bahrein la percezione dei piatti non è quella della vera cucina italiana, ma mescolata con quella americana, ed è un grosso problema».
Si aspettano la pasta bolonaise con la panna (azzardo la battuta, Giancarlo è affabile, ma sento pur sempre la presenza di una Rock Star al mio fianco).
«Esatto. E magari restano male, perché non l’avranno mai».
E in Italia, come ama mangiare la gente, oggi?
«La gente mangia in maniera diversa negli ultimi anni. E mangia molto meno. Le temperature sono cambiate, c’è molto caldo d’estate e il freddo d’inverno non è più quello di una volta, vengono richiesti piatti più leggeri, poco conditi. Le persone sono più attente alla salute, in generale»
Per questo avete introdotto sulla carta anche quattro opzioni vegetariane?
«Siamo sempre stati molto attenti a questa esigenza, ma mentre prima era un’alternativa, ora vogliamo dare qualcosa in più. Un vegetariano non scontato, ma di grande soddisfazione. È un segno dei tempi».
Un po’ di storia. Sei nato in provincia di Verona, da una famiglia veneta che lavorava nella gastronomia. Cosa hai portato nella tua cucina, dei piatti della domenica in Casa Perbellini?
«I piatti intramontabili sono i flan di cardi e la pasta reale che è una specie di stracciatella alla romana: brodo di cappone e gnocchi di burro, farina, uovo e Grana Padano. Il risotto al Tastasal che faccio viene dai nostri pranzi domenicali, reintrepretato in maniera moderna. Ho avuto la fortuna di avere due figure molto importanti in cucina: mia madre, una grande cuoca, e mio nonno Ernesto, che ha sempre fatto il cuoco, e mi ha segnato la strada. Poi ha deciso di fare solo il pasticcere».
A proposito di dolci. Hai aperto anche una pasticceria, la Dolce Locanda, poco lontano da qui. E recentemente hai vinto il World Pastry Star, riconoscimento tra i più prestigiosi e ambìti del mondo della pasticceria, per “la massima rappresentazione del connubio tra la grande pasticceria e la cucina”. La tua Millefoglie ha fatto la storia.
«Sì, nell’ultimo anno con il restyling del locale abbiamo inserito in Casa Perbellini una zona per il dolce, che viene prodotto al momento. E questo è molto importante, cambia tutto. La mano che lavora direttamente fa la differenza. Trasmettere anche solo il lievito ad altre persone è difficile, è come avere un figlio. Anche se è solo acqua e farina, due persone che fanno lo stesso lievito madre hanno risultati diversi. Mio zio lo faceva diverso da mio nonno. Tuttavia mi ritengo più uno Chef per il salato che per il dolce».
«La cosa più difficile da fare: tirar fuori da poco, tanto». Giancarlo Perbellini
Tradizione e innovazione. Qual è il futuro della cucina gourmet?
«L’ultima ventata di novità l’ha data Ferran Adrià. Con lui si è iniziato a usare di tutto e di più: sifone, distillatori, onde a ultrasuoni. Più di così dove vuoi andare? Heston Blumenthal mette le cuffie con la musica, per stimolare anche l’udito mentre accompagna i piatti, ma negli ultimi quindici anni non ci sono state vere rivoluzioni in cucina. A me non interessa una ricerca spasmodica verso esperienze che vanno oltre il gusto. Oggi è il prodotto che fa la differenza. Una cucina più essenziale».
Più essenziale e più accessibile.
«Sicuramente. Ho ideato un nuovo format per questo, il primo di una serie di bistrot che aprirò in Italia. La Locanda Perbellini a Milano, dove il concept è una cucina veloce e curata, mangi bene, in un bel locale, con prezzo molto attento».
Improvvisamente, mi viene una curiosità delle mie. Decisamente naive. Glielo chiedo: il piatto più buono che tu abbia mai mangiato, l’hai cucinato tu?
«No… – ride – ma di piatti eccezionali ce ne sono veramente tanti. Ancora adesso qualcosa mi emoziona. Un piatto che mi ricorderò per la vita l’ho apprezzato qualche mese fa al Mandarin Oriental di Milano: anguilla e foie gras straordinari, con salsa ponzu schiumata. Equilibri perfetti».
Allo Chef brillano brillano gli occhi, veramente. E anche a me, che sarei dovuta venire qui all’ora di pranzo, non in mattinata, come suggerisce anche lui. Ho un’ultima domanda, non scritta.
C’è molto Giappone nelle tue risposte, anche se nelle mani di Chef italiani. Cosa ti piace del Sol Levante?
«La cucina giapponese, quella vera, è di grande emozione perché è una cucina di materie prime e semplicità. La cosa più difficile da fare: tirar fuori da poco, tanto».
Sospiro, ça va sans dire. Mi aspetta la visita della cantina dei vini, italiani e francesi, un altro mondo da scoprire. E so già che il fascino delle arcate in pietra mi riporterà in chissà quale altra dimensione della nostra storia, vicina o lontana. Piccola o grande che sia, sarà una storia di ampie vedute e attenzioni minimali, piccoli tocchi, grandi magie. Giancarlo Perbellini e l’insostenibile bontà delle cose semplici.
Articolo: Desirèe Zucchi Shooting fotografico: Adriano Mujelli