Pasquale, Davide, Gregorio avevano un’idea di pane e l’hanno concretizzata in quella splendida realtà che è Forno Brisa. Ecco la loro avventura.
Brisa è la negazione per eccellenza del bolognese Doc. Potrebbe essere simile al non italiano, ma metterla in questi termini all’ombra delle Due Torri non vi salverà la faccia. Brisa contiene infatti una potenza e una perentorietà difficili – no, dai, impossibili – da rendere con un semplice non. I puristi sostengono vada utilizzata rigorosamente in dialetto, quando non si vuole dare al proprio interlocutore l’opportunità di replica: basta, non ce n’è, finiscila, brisa.
Cosa c’entra una parola che indica un netto rifiuto col pane? A meno che non si abbia qualche conto in sospeso con i carboidrati, poco o nulla. A Bologna, invece, è diventato un progetto, espressione cara ai milanesi per identificare cose fighe in perenne evoluzione, Forno Brisa. Che non è la solita panetteria, non è il solito prestinaio, non è il solito luogo dove andare a comprare pagnotte e croissant. Ecco, prendete l’immagine un po’ stantia e monotona del classico forno e cancellatela… Anzi, brisa per l’appunto.
Pasquale Polito, Davide Sarti e Gregorio Di Agostini sono giovani – il più vecchio è classe 1982 – e si conoscono nel 2013 a Pollenzo. Studiano tutti e tre Scienze Gastronomiche presso la scuola di Slow Food, iscritti al Master di Alto Apprendistato per Panettieri e Pizzaioli. Pasquale e Gregorio sono coinquilini, Davide «l’abbiamo visto arrivare in infradito, con un grosso borsone a tracolla. Noi volevamo fare il pane con i grani antichi, lui voleva aprire una pizzeria a Ibiza. Ci siamo piaciuti subito». Vanno d’accordo, i tre, accomunati da un desiderio, «far stare bene le persone che abbiamo intorno. È l’unico modo che conosciamo per stare bene a nostra volta». Cucinano parecchio, durante i mesi trascorsi a Pollenzo, e la loro casa è sempre piena di avventori che passano per un boccone.
Pasquale, che nel trio ricopre il ruolo del guru panificatore, è abruzzese, laureato in Geografia a Bologna, e sta per intraprendere un Dottorato in Geografia del Territorio. Galeotti, però, sono i lievitati: si appassiona all’universo di farine & Co e inizia a sfornare pane, dolci, e panettoni in casa, che poi regala agli amici. Come spesso avviene, la voce si sparge e lui diventa una sorta di celebrità, arrivando a ricevere veri e propri ordini.
«Davide l’abbiamo visto arrivare in infradito, con un grosso borsone a tracolla. Noi volevamo fare il pane con i grani antichi, lui voleva aprire una pizzeria a Ibiza. Ci siamo piaciuti subito». Pasquale e Gregorio, Forno Brisa
Davide, l’unico autoctono del gruppo, è freelance: si occupa di video e grafica, ma «ero arrivato al punto di voler fare l’esatto contrario. E l’esatto contrario era il pane».
Gregorio – il gourmet, come lo definiscono Pasquale e Davide «anche se non so bene cosa significhi», si schernisce lui – ha origini marchigiane e, dopo aver studiato Lettere a Roma, vorrebbe diventare giornalista. Collabora con qualche magazine, ma sente il bisogno di esprimersi nel lavoro pratico «e visto che a Roma esiste una forte cultura dei forni, ancora parecchio ancorata alla quotidianità delle persone, mi sono interessato al prodotto e ho cominciato un percorso di ricerca sulla produzione».
Il Master si compone di una parte in aula e un’altra di tirocinio pratico presso diverse botteghe in giro per l’Italia. In un anno e mezzo i tre amici si fanno le ossa, e nel frattempo «sparavamo cazzate, mille sogni, mille piani, mille programmi, finché le cazzate non sono diventate un business plan con i piedi ancorati a terra». Battezzano una città, Bologna, «perché due su tre venivamo da Bologna, che è avanti, bella aperta e ricettiva, con un grande fermento culturale», e dopo alcuni bidoni acquisiscono la licenza di un panificio in via Galliera: è qui che, il 6 dicembre 2015 viene inaugurato il primo Forno Brisa.
Che già di per sé costituisce una piccola, grande rivoluzione. Fino a poco tempo fa, il pane era considerato alla stregua di una commodity: a parte rare eccezioni, la scelta poteva articolarsi tra poche alternative, con un acquisto effettuato principalmente al mattino dalle mamme o casalinghe che – prima di sbrigare le faccende domestiche – s’infilavano scarpe e cappotto per scendere a comprarlo dal panificio di fiducia. Durava un giorno, due al massimo, quel pane comprato al panificio sotto casa, salvo poi indurirsi e diventare immangiabile. L’abitudine è andata perduta col cambio generazionale, quando la Generazione X narrata da Douglas Coupland ha ceduto il passo ai Millennials descritti da Lena Dunham. Iperconnessi, disordinati e poco fedeli, i Millennials pretendono prodotti che li rispecchino, capaci dunque di “raccontare una storia”, sia essa stilistica, artistica o alimentare. Mandando così in crisi le panetterie tradizionali che non sono riuscite a reinventarsi. L’acquisto del pane si è trasformato in un acquisto serale, tornando dal lavoro: al mattino si vuole il cappuccino e la brioche, il pomeriggio un tè, all’imbrunire un calice di vino o uno spritz accompagnati da un paio di focacce. E quando si va in cassa a pagare, si aggiunge una delle proposte in carta, ché i più scaltri l’hanno capito: la panetteria è meglio chiamarla bread bar, e quei pani speciali bene in mostra sulle pareti non hanno nulla da invidiare ai piatti di un ristorante blasonato. I più scaltri formano il personale affinché possa spiegare ai clienti le peculiarità di ogni pagnotta, e i clienti stessi possano scegliere la variante più in linea con i propri gusti. I più scaltri sono stati Davide Longoni, Niko Romito, Alan Locatelli, Giuseppe Zen, i ragazzi di Forno Collettivo a Milano. E, ça va sans dire, il trio di Forno Brisa.
«Nel settore mancava l’entusiasmo, l’energia, la creatività», prosegue Davide: «già solo il fatto che fossimo carichi, che ci credessimo, che volessimo andare fino in fondo ha aumentato l’interesse e il passaparola. Nel momento in cui abbiamo aperto, abbiamo approfondito con la clientela ciò che stavamo facendo, aggiungendo il secondo tassello fondamentale: la cultura. Certo, l’impalcatura non si regge senza la qualità, ma su quella non transigiamo: abbiamo la nostra azienda agricola in Abruzzo dove coltiviamo solo il nostro grano e selezioniamo accuratamente tutti i nostri fornitori. Il segreto sta nell’avere un prodotto di indubbia qualità e nell’avvicinare la persone alla nostra storia: il passo in più che compiamo è quindi culturale, ed è quello che ci sta premiando».
«Senza menarcela, siamo riusciti a creare un prodotto gustoso, nutriente, digeribile e duraturo, donandogli pure una leggerezza comunicativa che lo rende ‘sbottonato’: il bancone non è una cattedra, e noi non vogliamo barriere. In Italia non conosco nessun pastificio che possa contare su tutte queste vecchie varietà di frumento, che lavori sui miscugli in modo costante e radicale, che faccia solo pane di pasta madre con la nostra frequenza. Forno Brisa si fonda su una rete di relazioni sincere, sia a livello di team che di filiera. Dal 2015 a oggi abbiamo imparato ad ascoltare le esigenze dei nostri clienti e a regolare il servizio di conseguenza: abbiamo imparato come farci voler bene, e come voler bene alla gente», puntualizza Pasquale.
Nelle parole dei tre fondatori non c’è supponenza, non c’è snobberia, non c’è presunzione: un impegno incessante ha permesso l’acquisizione di competenze tecniche che, una volta assimilate, sono state trasferite alle nuove leve, panificatori e pizzaioli che ora fanno parte di un collettivo di ventisette persone intorno ai trent’anni. Loro amano chiamarsi Breaders, come “fratelli di pane”, un nome che a me ricorda tanto la band delle sorelle Kim e Kelley Deal nata sulle ceneri dei Pixies, The Breeders. Si narra che Black Francis lasciasse Kim Deal ai margini del gruppo e non le consentisse di esprimere il suo potenziale a livello compositivo: lei allora, anziché macinare frustrazione in un angolo, diede il via a un progetto parallelo culminato nel 1993 con la pubblicazione di Last Splash, uno degli album più importanti della musica alternative.
La panetteria è meglio chiamarla bread bar, e quei pani speciali bene in mostra sulle pareti non hanno nulla da invidiare ai piatti di un ristorante blasonato.
Salto di palo in frasca, ma nemmeno troppo: anche i The Breeders furono all’epoca portatori di una rivoluzione, e l’immagine coordinata di Forno Brisa ha alcune radici che affondano nella cultura skate e indie di matrice anni ’90. Gli adesivi Pasta Madre Is Not A Crime che ricordano il celebre Skateboarding Is Not Crime; il logo su fondo rosso che rievoca Supreme; le t-shirt “Fanculo La Dieta” che sanno tanto di Rage Against The Machine; i portelloni dei frigoriferi ricoperti di sticker dei Beastie Boys, dei Sublime, dei Public Enemy, dei Black Flag, dei Lagwagon e dei Red Hot Chili Peppers. L’ideazione e realizzazione di una serie di gadget e di merchandising a marchio Forno Brisa è la classica ciliegina sulla torta, la trovata per nobilitare ulteriormente un prodotto e degli ingredienti ritenuti per troppo tempo banali, soprattutto da un pubblico più giovane.
Ovvio, non è tutto rose e fiori, e all’inizio il trio – a cui si aggiunge Enrico Cirilli, che ha sviluppato il reparto del caffè – si deve scontrare con difficoltà di tipo economico. I soci sono Pasquale e Davide, che mettono insieme i rispettivi risparmi e partono come una startup. «C’è voluta parecchia determinazione, oltre all’aiuto di una serie di persone con cui avevamo collaborato durante il tirocinio, che hanno voluto darci una mano. Bernardi, azienda di impastatrici professionali, ci ha prestato l’impastatrice; l’Amministratore Delegato di Esmach ci ha concesso un pagamento dilazionato per i forni; Filippo Drago di Molini del Ponte ci ha dato due bancali di farina dicendoci che l’avremmo pagato quando saremmo stati in grado di farlo». Si è instaurato così un circolo virtuoso che ha dato la possibilità ai giovani panificatori di avviare un’azienda: nel 2015 aprono il primo laboratorio con negozio in via Galliera e lavorano come matti. I numeri (e l’intuizione) danno loro ragione: i ragazzi si fanno vedere in giro, organizzano un sacco di eventi, promuovono l’attività e nel 2017 inaugurano Teglia, pizzeria al taglio in via San Mamolo, sotto lo Spizzeasy Paradise Pizza. Il progetto artistico comprende la label di musica house di dj Uovo, con il suo immenso archivio di vinili, un brand di streetwear e un privé aperto in occasioni speciali. Sempre nel 2017, a fine ottobre, arriva il secondo punto vendita di Forno Brisa in via Castiglione, strategicamente di fronte al Liceo Classico Galvani. L’anno successivo, a dicembre, nasce il quarto Forno Brisa in via San Felice: pane, pizze, dolci, biscotti, torte, caffè, birre artigianali, vini biodinamici e cocktail vengono serviti sullo sfondo di un suggestivo Wall of Fame, un murales che rappresenta un tributo ai vari maestri che hanno contribuito – direttamente e indirettamente – al progetto. Nell’opera realizzata dal Collettivo Fx compaiono Marco Colzani, Carlin Petrini, Davide Longoni, Gabriele Bonci e tutti i professionisti che hanno ispirato e formato il gruppo di fornai.
Pasquale, Davide e Gregorio insieme a queste personalità, hanno ridato dignità a un alimento, il pane, «che non è un bene di lusso, ma un bene alimentare che deve costare un giusto prezzo per coloro che sono coinvolti nella sua produzione», sottolineano. «Siamo stati rivoluzionari, se vuoi irriverenti, perché non abbiamo mai frequentato una scuola d’accademia di panificazione. Il professionista panificatore ha delle basi tecniche e culturali talmente rigide che non riesce a comprendere come noi riusciamo a fare il nostro pane con grani che – secondo certe schede tecniche – sono considerati non panificabili. Poi, lo produciamo di giorno, facendolo apposta grande in modo tale da poter dormire mentre lui la notte riposa. Quando qualcosa per te non è ‘tradizione’, allora hai il potere di metterla in discussione: noi ci siamo guardati e ci siamo chiesti ‘Ma perché dobbiamo lavorare di notte?’».
«Siamo riusciti a creare un prodotto gustoso, nutriente, digeribile e duraturo, donandogli pure una leggerezza comunicativa che lo rende ‘sbottonato’». Pasquale, Forno Brisa
Pasquale lo ribadisce più volte: «ci siamo innamorati prima dei campi di grano e abbiamo voluto un pane che possedesse un legame diretto con le spighe. Abbiamo stracciato le schede tecniche e usato l’impastatrice come un’estensione delle nostre braccia e delle nostre teste. Il cervello collegato al braccio, a sua volta collegato al braccio dell’impastatrice, insieme alle conoscenze acquisite dai maestri panificatori, ha fatto sì che si formasse la nostra tecnica, il nostro metodo».
Per i non addetti ai lavori, quella di Pasquale Polito e soci è una provocazione allo stato puro. È ormai un pensiero comune ritenere la panificazione un’attività notturna, quando in realtà «serve per il pane piccolo, per il pane col lievito di birra, per un prodotto che va cotto la mattina e consumato in giornata», precisa Pasquale. Forno Brisa, invece, punta su un pane più complesso, su pagnotte da due chili con un rapporto adeguato di crosta/mollica. Per ottenere quel risultato, i ragazzi sfornano alle otto di sera e lasciano riposare il pane su griglie costruite su misura – «perché non esisteva un mobile per sfornare il pane, tutti lo mettono nelle ceste e lo servono caldo». Il raffreddamento è importante almeno quanto la lievitazione, poiché permette all’umidità di fuoriuscire e alla mollica di formarsi: «una volta si diceva ‘pane di ieri, buono domani’. In campagna si faceva il pane una volta alla settimana e ci si passava la pasta madre di famiglia in famiglia… Fondamentalmente non abbiamo inventato nulla». Pur non disdegnando il lievito di birra – «che è perfetto per la nostra pizza, da consumare in giornata» – la complessità della pasta madre è alla base dell’identità e della filosofia di Forno Brisa, al punto che i Breaders assimilano il lavoro di gruppo e in campo proprio al suo miscuglio di lieviti e batteri.
«Noi ci siamo guardati e ci siamo chiesti ‘Ma perché dobbiamo lavorare di notte?». Pasquale, Forno Brisa
«Stiamo inseguendo il filone di ricerca del miscuglio dinamico, una tecnica agronomica portata in Italia dalla Siria dal Prof. Salvatore Ceccarelli. In uno stesso campo si mettono diverse popolazioni di frumenti, ribaltando la convenzione secondo cui è il terreno a dover cambiare affinché il seme stia bene. Qui invece parliamo di un mix di grani antichi non acquistati dalla multinazionali, ma di nostra proprietà, che si evolvono adattandosi al terreno e producono dei frumenti davvero locali», spiega Pasquale. «Equivale a crearsi il proprio paesaggio e farne parte», chiosa Gregorio, «andiamo a sfruttare in maniera scientifica e critica una tecnica agronomica primitiva, che racchiude in sé i principi del darwinismo. Si crea diversità, e solo nella diversità si sopravvive e ci si trasforma».
I ragazzi di Forno Brisa non temono la diversità, anzi: «è un nostro marchio di fabbrica, quello di avere tanti punti di vista e tanti punti di forza, ed è il confronto che ci ha fatto crescere». Trascorrendo un pomeriggio in loro compagnia si viene letteralmente travolti dal fervore e dal trasporto con cui parlano della loro “creatura”, un luogo dove nulla è dato per scontato. Nemmeno la prima colazione. «Siamo promotori del pane, burro e marmellata, delle torte e sul caffè stiamo facendo un grande lavoro sulla filtrazione e sull’estrazione rispettosa di un chicco che viene da un frutto “spolpato”. Il frutto del caffè è una ciliegia rossa, mentre noi siamo abituati a vedere dei chicchi neri bruciati, che del frutto non conservano niente. Per riconoscere l’identità territoriale, utilizziamo dei chicchi non bruciati, che si esprimono al meglio con il filtro. Serviamo pure l’espresso per chi va di fretta, ma dato che la tendenza è di prendersi più tempo per la colazione, stiamo spingendo sul concetto di infuso, finora più associato al tè e alle tisane più che al caffè».
Il mantra dei ragazzi di Forno Brisa è semplice, ma non semplicistico: «rendere felici le persone, tutte: fornitori, clienti, collaboratori, soci. Se poi oltre a questo riusciamo anche a fare ricerca e sviluppo e a verticalizzare il nostro lavoro passando al mulino e alla roastery, con un nuovo laboratorio dove trasformare il nostro grano e il caffè verde… Beh, possiamo arrivare ancora più in alto nella conoscenza, nella trasformazione e nella formazione diffusa».
Pasquale, Davide, Gregorio e la loro crew d’altronde sono un miscuglio dinamico. Ed esattamente come il miscuglio dinamico, rifuggono la staticità e la prevedibilità. Non aver paura del cambiamento e della diversità richiede coraggio, si sa, ma i ragazzi e il loro intrepido grano ne hanno da vendere.
Articolo: Marianna Tognini Shooting fotografico: Beatrice Cassarini