Il 15 giugno 2014 rimarrà una data storica per lo sport italiano. In quel giorno volgeva al termine la serie finale del campionato NBA, il campionato professionistico americano, la massima espressione mondiale del basket.Quel giorno Marco Belinelli, da San Giovanni Persiceto, diventava il primo italiano a vincere il titolo NBA: il coronamento del sogno di una vita iniziata nel campetto di quartiere e passato poi per la grande avventura d’oltreoceano come la diciottesima scelta del draft del 2007.
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Una vittoria che ha dato un senso a tutti i sacrifici e all’incrollabile fiducia nei propri mezzi che ha portato Marco nel gotha del basket, permettendogli di superare anche i momenti in cui in pochi continuavano a credere in lui. Tra questi, un ruolo fondamentale per la carriera di Marco lo ha avuto Elisa Guarnieri, sua P.R. dal 2010. Elisa è una donna in carriera nel mondo del management sportivo con una solida esperienza sul campo, pochi fronzoli e un’unica regola imprescindibile: accetta un lavoro solo se crede fermamente nel suo atleta cliente.
Siamo andati a trovarla nel suo paese natale, Fiorenzuola, per ascoltare la sua storia.
Grazie Elisa per aver raccolto il nostro invito. Nata e cresciuta a Fiorenzuola, una vita professionale contrassegnata non solo dall’amore per lo sport, ma da una collaborazione ormai più che decennale con il brand Nike. Puoi raccontarci i tuoi inizi?
Sono sempre stata una patita per lo sport e, poiché le mie speranze di diventare un’atleta erano poche, il mio sogno fin da ragazzina era quello di diventare una giornalista sportiva per poterlo vivere dall’interno.
Ho quindi iniziato con quanto di meglio poteva offrire il mio paese: ogni giorno, terminata la scuola, mi precipitavo a vedere gli allenamenti del Fiorenzuola Calcio. Ed erano proprio le sessioni di allenamento i momenti che mi divertivano maggiormente: vedere i giocatori interagire tra loro, le varie fasi del training e il comportamento degli allenatori mi permetteva di comprendere tutto quel “dietro le quinte” che avrebbe costituito il presupposto per la partita della domenica. Ero una sedicenne decisamente anticonformista: snobbavo le amiche che si ritrovavano al Bar Centrale per seguire gli allenamenti. Io mi sentivo bene lì, seduta al mio posto nella piccola tribuna del campo comunale, munita di un quadernino dove riportavo tutto quello che vedevo. Poi, ovviamente, non mi perdevo una partita per nessun motivo al mondo.
Finito il liceo mi iscrissi quasi per caso alla facoltà di Economia e Commercio, ignorando quasi completamente di cosa si trattasse. I primi anni non furono entusiasmanti dal punto di vista degli esami sostenuti, al punto tale da portare i miei genitori a propormi un piano di incentivi tramite quello che si poteva definire un vero e proprio contratto, scritto su un post-it: a seconda del voto ottenuto per ogni esame sostenuto avrei ricevuto una sorta di retribuzione. Altrimenti nisba.
Alla fine del mio percorso di studi, nel periodo della scelta della tesi mi capitò in mano una rivista di moda: nelle ultime pagine erano riportati i nomi dei brand pubblicati e i relativi indirizzi. Trovai anche il riferimento di Nike in Italia e scoprii che la sede di allora era a Reggio Emilia: praticamente a un niente di distanza da casa mia. Non mi feci sfuggire l’occasione e scrissi la mia tesi proprio sul caso Nike. Nel 2000 l’azienda mi contattò per propormi uno stage nell’ambito delle public relation sportive.
Da quel momento la mia vita prese una svolta definitiva. La mia vita era diventata lo sport.
È stato come il coronamento di un sogno, trasformatosi in breve tempo in un vero e proprio “state of mind”. Finiti i sei mesi di stage venni assunta dall’agenzia di comunicazione che ai tempi seguiva Nike nell’ambito delle public relation.
Come si è sviluppata la tua carriera dal giorno della firma del contratto?
Ho imparato tantissimo. L’agenzia per cui lavoravo era una vera e propria istituzione nell’ambito della comunicazione sportiva. È stata la prima, ideando la campagna Sector No Limits, ad avvicinare un brand al mondo degli sport estremi. Grazie a loro sono cresciuta professionalmente occupandomi sempre del marchio Nike. Qualche anno dopo, e precisamente nel 2005, parallelamente alla mia attività, arrivò la proposta di seguire la comunicazione di uno degli sciatori di punta della nazionale italiana di allora: Giorgio Rocca.
Abbiamo avuto modo di lavorare insieme alle Olimpiadi di Torino 2006. È stato come imparare da zero un nuovo mestiere, con una presenza costante anche sui campi di gara e comprendendo appieno in cosa consiste la vita di un’atleta, i sacrifici, le difficoltà e le rinunce che deve affrontare. Successivamente ho curato la comunicazione di Giuliano Razzoli, un altro sciatore.
Poi nel 2010 è arrivato lui, Marco Belinelli. I suoi fratelli, che lo seguono da sempre nel suo percorso di giocatore professionista, cercavano una persona capace di curarne la comunicazione in tutti gli ambiti, e organizzarono un meeting per conoscerci. Ci siamo incontrati, ci siamo piaciuti. Sapevo che giocava in NBA, ma non conoscevo l’andamento della sua carriera, tantomeno la sua considerazione da parte della stampa e degli addetti ai lavori. Per me era un giocatore puro e semplice. All’inizio Marco era molto chiuso, diffidente e poco comunicativo, con una scarsa propensione a esporsi. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, gli addetti ai lavori mi dicevano che avrebbe fallito in NBA, perché reduce da una stagione in cui aveva giocato pochissimo.
«Nel 2010 è arrivato lui, Marco Belinelli. I suoi fratelli, che lo seguono da sempre nel suo percorso di giocatore professionista, cercavano una persona capace di curarne la comunicazione in tutti gli ambiti, e organizzarono un meeting per FARCI CONOSCERE. Ci siamo incontrati, ci siamo piaciuti».
Non ho mai dato alcun peso a quello che si diceva in giro di lui. Io mi fido solo delle mie sensazioni. Se non si instaura da subito un feeling e, soprattutto, se non riesco a credere nell’atleta non posso lavorare con e per lui. Marco per me è stato fin da subito il giocatore più forte che conoscessi. Il primo comunicato stampa che realizzai per lui fu il passaggio dai Toronto Raptors ai New Orleans Hornets, che poi ha rappresentato la svolta della sua carriera. Certe cose non accadono mai per caso.
Forse l’aspetto più bello del mio lavoro consiste nel partire con un progetto nel momento in cui l’atleta si trova nel momento più basso della sua carriera, per accompagnarlo poi nella sua risalita.
Da quel che mi stai dicendo, deduco che debba nascere tra te e il tuo assistito una forte empatia come condizione necessaria per accettare l’incarico di seguirlo nelle pubbliche relazioni.
Io ci metto solo ed esclusivamente passione nel mio lavoro: se qualcosa non mi entusiasma non sono brava a nasconderlo, quindi preferisco non farla. Ho rifiutato tanti lavori perché io stessa non ci credevo abbastanza, nonostante fossero allettanti dal punto di vista economico.
Con tanti atleti ho instaurato un solido rapporto di amicizia, e se un collega mi chiede un’opinione o di fare due chiacchiere io non mi nego mai: lo ascolto, gli parlo e lo consiglio, non sono capace di dire di no, lo faccio anche senza guadagnare un euro.
Ricevo tantissime email di ragazzi che vorrebbero fare il mio lavoro: non riesco a negarmi, ma al contempo voglio sempre essere molto onesta con chi mi scrive: lavorare nello sport è molto complicato perché è un mondo che si sta ancora strutturando, non ci sono ancora le professionalità necessarie ed è difficilissimo emergere. Ricevo lettere motivazionali quasi commoventi di persone che si propongono anche solo per uno stage. È un settore in cui ancora adesso è fondamentale inserirsi il prima possibile e mostrare le proprie capacità, senza considerare una buona dose di fortuna. Questa fortuna però va cercata, impegnandosi senza sosta.
«Io ci metto solo ed esclusivamente passione nel mio lavoro: se qualcosa non mi entusiasma non sono brava a nasconderlo, quindi preferisco non farla. Ho rifiutato tanti lavori perché io stessa non ci credevo abbastanza, nonostante fossero allettanti dal punto di vista economico».
Parlavi prima di professionalità nel mondo dello sportivo: tu ora stai seguendo la comunicazione di un top player italiano nel mondo del basket statunitense. Qual è la tua percezione dello stile di comunicazione prevalente negli USA?
Negli Stati Uniti lo sport è considerato una vera e propria industria fin dalle scuole. Certo, questo sistema non può essere considerato tutto rose e fiori: i ragazzi sono sottoposti ad una selezione spietata. Se si è talentuosi si riceve la borsa di studio per andare a giocare negli atenei migliori, ma il talento non basta: il ragazzo deve garantire sempre prestazioni ad alti livelli per poter restare e avere un’ulteriore chance di emergere, altrimenti si è fuori.
Quello che apprezzo maggiormente del sistema americano è il processo di educazione a cui viene sottoposto un atleta. Qualsiasi lega professionistica americana, si tratti di basket o di baseball o altro, obbliga i giocatori a rapportarsi correttamente con la stampa e i media e ad approcciarsi con la massima disponibilità agli sponsor, che rappresentano la linfa vitale per la lega stessa. Certo, anche negli Stati Uniti ci sono i personaggi che fanno eccezione, ma tutti posseggono un’etica del lavoro e una padronanza assoluta del loro comportamento, perché sanno che il giornalista è uno strumento attraverso il quale far conoscere se stessi.
Purtroppo, in Italia questo approccio non c’è: il giornalista è spesso considerato come un nemico al quale riservare solo frasi fatte e senza contenuto.
Credo che a molti atleti italiani manchino le basi di un’educazione alla comunicazione che è fondamentale.
Manca, a tuo parere, una sorta di lungimiranza nel capire che bisognerebbe pensare fin da subito ad una carriera successiva a quella strettamente agonistica?
Esatto. Parlando di calcio, gli sportivi che continuano a rimanere sulla breccia una volta terminata la carriera agonistica sono quelli che avevano un’etica del lavoro, si erano fatti un’immagine solida e avevano investito bene i loro soldi. Oggi ci sono ventenni che si accontenterebbero di condurre tutta una carriera anche solo nelle leghe minori del nostro calcio. Non è così, non si può pensare di trascorrere tutta una vita a giocare in Lega Pro: una carriera da calciatore dura fino a 30-35 anni, poi non si può stare a guardare.
Per questo dico ai genitori: pensateci bene. A volte sono loro i primi a illudere i ragazzi stessi. Il rischio è quello di ritrovarsi con uomini mai cresciuti, trentacinquenni che non sanno cosa fare, che non hanno investito nulla, magari con una famiglia a carico.
Sarebbe importante avere un programma formativo che coinvolga scuola e federazioni sportive per far capire ai ragazzi che se lo sport diventa un lavoro non bisogna lasciarsi affascinare dai lustrini che questo mondo porta con sé. Al contrario, è necessario mostrare quali sono gli elementi fondamentali per riuscire: il sacrificio, la serietà, la dedizione al lavoro.
I ragazzi devono imparare che quando un atleta entra nello sport professionistico diventa né più né meno come un’azienda, il brand di sé stesso.
«Sarebbe importante avere un programma formativo che coinvolga scuola e federazioni sportive per far capire ai ragazzi che se lo sport diventa un lavoro non bisogna lasciarsi affascinare dai lustrini che questo mondo porta con sé. Al contrario, è necessario mostrare quali sono gli elementi fondamentali per riuscire: il sacrificio, la serietà, la dedizione al lavoro».
Tu hai un’etica del lavoro che ti porta a diventare un vero e proprio tutor per il tuo assistito, perché il giocatore è brand e come tale deve saper comunicare. Esistono, quantomeno in Italia, figure professionali simili alla tua? Individualità che lavorano con la stessa etica o empatia?
Cito le parole di Alessandro Mamoli (giornalista di Sky Sport, ndr.): «non è normale che una p.r. diventi la prima tifosa di un’atleta, al punto tale da tatuarsi sulla pelle qualcosa che ricorda l’atleta stesso». (Dopo la vittoria del titolo NBA di Marco Belinelli, Elisa si è tatuata su un braccio la frase “Alla fine ho vinto” pronunciata dal giocatore nell’intervista immediatamente successiva al trionfo ndr.). Ho incontrato tante persone che seguono sportivi esclusivamente dal punto di vista del mero business, soprattutto in Italia.
Io però non seguo granché quello che succede nell’ambito della comunicazione sportiva nazionale: il mio modello di public relation è rappresentato dagli Stati Uniti. Mi interessa sapere cosa fanno e dicono gli atleti americani perché credo che solo così si trovino le direttrici giuste per comprendere le dinamiche tra sport, marketing e social media. Ho avuto l’onore di lavorare qualche mese fa a stretto contatto con Jill Smoller, la manager di diversi campioni tra cui Serena Williams, e per me è stato illuminante. Ho cercato di “rubarle” ogni dettaglio. Lei è uno dei miei modelli. Per il resto seguo le attività dei miei omologhi che seguono la comunicazione di atleti del calibro di Kobe Bryant, Dwayne Wade e altri. È quello il metro di paragone con cui misurarsi per migliorare.
Abbiamo poc’anzi accennato ad un tatuaggio, che ricorda l’impresa di Marco Belinelli, il tuo assistito
Il tatuaggio è la naturale conseguenza di una promessa: eravamo a Washington in occasione delle riprese di uno spot per Footlocker. Era un momento in cui la vittoria del titolo NBA rappresentava solo un sogno che credo avessimo solo io, Marco e i suoi fratelli. In quel momento ci siamo ripromessi che, se il sogno si fosse avverato, avremmo festeggiato con un segno che sarebbe rimasto indelebile. Il mio tatuaggio riporta una frase della prima intervista che Marco ha lasciato a caldo dopo la vittoria dell’ultima finale. È un ricordo che rappresenta tantissimo per me.
Nonostante la tua attività lavorativa si svolga prevalentemente a Milano o in giro per il mondo, hai scelto di rimanere a vivere a Fiorenzuola. Perché questa scelta?
È il posto dove sono nata, sono cresciuta e mi sono formata come persona. Milano mi ha accolto e maturato per la dimensione lavorativa. Però, per me, tornare a casa vuol dire staccare la spina. Non cambierei il mio ristorante preferito di qui rispetto al locale più glamour di Milano. Questo non vuol dire che non stia bene nella metropoli. Però sono molto gelosa delle mie nicchie dove rintanarmi e escludere tutto. È fondamentale per me. Così facendo, sono in grado di mantenere sempre un punto di vista più reale e obiettivo delle cose.
Potendo scegliere, quale atleta o sportivo avresti voluto o vorresti seguire nell’ambito della comunicazione?
Sarebbe troppo facile per me dire Michael Jordan, ma in realtà mi sarebbe piaciuto molto seguire Mario Balotelli. Credo che fino a qualche anno fa ci potessero essere delle concrete possibilità di riuscire a indirizzarlo verso un modo corretto di comunicare e di raccontarsi. Sarebbe stata una bellissima sfida.
Articolo: Mauro Farina Shooting fotografico: Adriano Mujelli