Ivan Ravaioli è il ciclista dalle molteplici vite sui pedali. Dal Giro d’Italia con Marco Pantani alle bici a scatto fisso fino alle competizioni per gravel bike. Scopriamo la sua storia.
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Uno dei ricordi più belli che ho di mio nonno rimanda la mia mente a quei pomeriggi interminabili di Maggio quando, da bambino, in attesa del ritorno dal lavoro dei miei genitori, mi sedevo accanto a lui a fargli compagnia durante l’unico sacro appuntamento della sua giornata: la diretta del Giro d’Italia.
Insieme a lui ho scoperto i miei primi miti dell’infanzia – come Moser, Saronni, Hinault e tanti altri – e mi sono districato tra quelle decine di maglie variopinte che formavano la carovana del gruppo tappa dopo tappa. Oltre agli idoli poc’anzi citati, non riuscivo a capire chi fossero quell’altra grossa manciata di compagni d’avventura che pedalavano insieme a loro che, purtroppo per loro, venivano di rado menzionati se non per qualche lodevole – ma spesso vano – tentativo di fuga. Mio nonno mi descrisse quei mestieranti del pedale nel modo più netto e al contempo più esaustivo possibile. “Quelli sono i gregari: pagati per pedalare, sudare, portare borracce e non vincere mai”.
Ecco, oggi posso dire con certezza come mio nonno non avesse completamente ragione.
Ivan Ravaioli, classe 1980, non si è accontentato di un’onestissima carriera da gregario a cavallo dei primi anni del nuovo millennio. Al contrario, è stato in grado di interpretare le nuove tendenze del mondo delle due ruote a pedali e di cogliere al volo le occasioni che gli si sono presentate, diventando uno dei più talentuosi e importanti specialisti delle competizioni “fixed“, le gare con bici a scatto fisso in cui velocità e adrenalina sono gli ingredienti principali.
Quando Ivan Ravaioli mi si presenta davanti, aprendo la porta di casa sua, non posso fare a meno di notare il suo sguardo, un paio di occhi azzurri che si muovono guizzanti e che mi fanno pensare ad una persona sempre in grado di tenere tutto sotto controllo in pochi istanti e in qualunque occasione, sia questo un incontro casuale o il preludio di una volata di una gara ciclistica.
Ciao Ivan e grazie per averci accolti. Non si può dire che, guardandosi intorno, non si noti il fatto che tu sia un ciclista di lungo corso. Raccontaci come hai iniziato..
«Credo che il mio percorso non sia stato tanto diverso da quello di tanti altri ragazzi, con la differenza di avere un padre con una passione sfrenata per la bici e per tutto quello che le gira intorno. Al mio sesto compleanno pensò bene di regalarmi la mia prima bicicletta da corsa. Forse un po’ grande per me – arrivavo appena a toccare con le punte dei piedi per terra – ma più che sufficiente per mettermi su strada e iniziare a pedalare. Da allora non mi sono più fermato.
Ho fatto tutta la trafila di un ragazzo che aveva tanta voglia di correre. Sono partito dai Giovanissimi fino ad approdare agli Under 23, il gradino appena sotto al professionismo. È stato in quel momento che ho potuto coronare uno dei miei sogni, quello di vestire la maglia della Nazionale ai Mondiali di Zolder in Belgio nel 2002. Un’edizione particolarmente fortunata per i colori azzurri. La gara Under 23 la vinse il mio compagno di squadra Chicchi: una vittoria del singolo ma anche di squadra, un trionfo per il quale sono stato felice di aver dato il mio contributo. Ciliegina sulla torta di quell’edizione fu la vittoria di Mario Cipollini nella gara dei professionisti.
Il 2002 fu il mio ultimo anno da dilettante prima del grande salto».
Le cronache dell’epoca ti descrivevano come un giovane approdato alla corte di un grande campione.
«Il mio passaggio al professionismo avvenne l’anno successivo. Venni ingaggiato da quella che all’epoca era considerata una delle vere e proprie “corazzate” del ciclismo internazionale, la Mercatone Uno che aveva Marco Pantani come capitano. Iniziai la mia vita da professionista con il botto aggiudicandomi al primo anno due tappe del Trittico Lombardo e guadagnandomi sul campo la convocazione nel team per il Giro d’Italia di quell’anno.
Poter correre al fianco di Marco mi sembrava un sogno, era il ciclista che avevo sempre ammirato. Bastava il suo nome per riempire le strade del Giro d’Italia di gente, dai bambini fino agli anziani appassionati delle due ruote. Quel Giro fu per me croce e delizia: caddi in una delle prime tappe ma, nonostante il dolore, strinsi i denti per poter continuare a dare una mano alla squadra.
«Poter correre al fianco di Marco mi sembrava un sogno, era il ciclista che avevo sempre ammirato». Ivan Ravaioli
Fui costretto a gettare la spugna in una delle tappe Dolomitiche, dove giunsi fuori tempo massimo. Ricordo che Marco Pantani prese le mie parti perché voleva dimostrare come la mia esclusione della corsa fosse dovuta al caos generato dalla gente che tornava indietro sulla strada dopo l’arrivo dei primi corridori. Ecco, a nessuno sarebbe importato di prendere le difese di un semplice gregario, ma Marco era così. Quel piccolo grande gesto lo ricordo ancora con immenso piacere.
Dopo quel Giro d’Italia seguirono altri quattro anni di professionismo su strada vissuti sempre al massimo fino al punto in cui le circostanze della vita, tra le quali la nascita del mio primo figlio, mi portarono a fare alcune considerazioni e a interrompere la mia carriera, ma non la mia voglia di andare in bici. Nelle gare amatoriali su strada ho trovato per lungo tempo il giusto compromesso per coniugare la mia voglia di agonismo con lo stare insieme con i miei amici».
Anni da ciclista amatore, unica soluzione per coniugare passione con impegni familiari, per poi approdare di nuovo al professionismo. Come è nata la tua seconda vita ciclistica?
«Ho scoperto il mondo delle bici fixed nel 2014 grazie al mio amico Omar Presti, che mi invitò a partecipare a una gara da lui stesso organizzata. Mi divertii al punto tale da volermi iscrivere all’ultima tappa dell’anno del Red Hook Criterium, il circuito mondiale di competizioni per bici fixed.
Le fixed, bici con un solo rapporto e senza nessun freno, sono i mezzi tipici dei messenger newyorkesi, i portalettere americani che, borsa a tracolla, si muovono rapidamente strada per strada da un indirizzo di consegna all’altro grazie ad un mezzo veloce e poco bisognoso di manutenzione.
Le competizioni si svolgono quasi sempre in circuiti cittadini dove è necessario coniugare una buona dose di coraggio a spiccate abilità di guida e, soprattutto, un’ottima condizione atletica. Perché non si smette mai di pedalare e le medie orarie di ogni gara possono superare abbondantemente i 45 chilometri orari.
Ecco, partecipare a quella gara mi ha aperto le porte di un mondo completamente nuovo e di una seconda vita ciclistica. Mi sono trovato circondato da professionisti e da imprenditori, dal muratore al messenger americano, persone diversissime tra loro ma accomunate dalla stessa passione: quella per una bici all’apparenza normale, ma senza cambio e, soprattutto, senza freni.
In quella gara mi piazzai secondo: un risultato per tanti aspetti sorprendente, soprattutto per me, ma che mi convinse a giocarmi tutte le chance di una nuova vita sui pedali iscrivendomi all’intero campionato Red Hook per l’anno successivo. Da un anno all’altro mi trovai a rivivere le sensazioni provate durante la mia carriera professionistica, quando con una borsa a tracolla e una bici imbarcata nella stiva di un aereo raggiungevo ogni parte del mondo per salire sui pedali e correre. La mia seconda vita mi ha portato a gareggiare a New York, Londra, Milano e Barcellona.
«Da un anno all’altro mi trovai a rivivere le sensazioni provate durante la mia carriera professionistica». Ivan Ravaioli
La scommessa giocata solo un anno prima venne ripagata con la vittoria di due tappe e il successo finale in classifica generale. Quello che era stato un sogno fino a poco tempo prima era ora diventato realtà: avevo vinto il Red Hook Criterium!».
Come è nato il rapporto con un brand come Cinelli?
«Dopo la vittoria nella generale del 2015 fui contattato da Antonio Colombo, patron di Cinelli. Antonio ha avuto il grande merito di essere stato il primo in Europa a cogliere questa cultura della bicicletta a scatto fisso che si era imposta come modello nelle community dei messenger americani importandola e facendola conoscere nel Vecchio Continente. Dopo aver conosciuto Antonio, diventare un portacolori di Cinelli nel mondo dello scatto fisso è stata la scelta più naturale che potessi fare.
Insieme ai miei compagni, con il Team Cinelli ho contribuito a scrivere alcune delle più belle pagine nella storia del Red Hook Criterium negli ultimi tre anni. Ma come ogni favola che si rispetti, anche questa avventura è giunta alla fine».
E oggi qual è la nuova sfida che stai per affrontare?
«Oggi sono alle soglie della mia terza vita ciclistica. Dopo tre anni di competizioni nell’ambito dello scatto fisso ho deciso di cercare nuovi stimoli e, quindi, di intraprendere una nuova avventura nell’ambito del mondo gravel.
In compagnia di tre amici ho fondato il team Zydeco King con il quale stiamo già partecipando in Italia e in tutte Europa alle competizioni sulle lunghe distanze. Sto parlando di itinerari di oltre 500 chilometri da percorrere senza limiti di tempo. Il perché di questa scelta è presto detto: è arrivato il momento per me di riscoprire il vero senso del ciclismo, che non è quello della competizione allo spasmo e della velocità, ma anche, e soprattutto, quello di godersi il piacere del viaggio.
In tutti questi anni di competizioni e di vita di gruppo avrai certamente avuto modo di confrontarti con svariati modi di vivere e interpretare il mondo del pedale, così come tutti gli elementi che il ciclismo contiene come l’agonismo, la ricerca della performance, la fatica, il sacrificio. Dopo tutto questo tempo vissuto in sella cosa rappresenta oggi il ciclismo per te?
«Dopo una vita passata sui pedali ho capito che per me il tutto si riconduce alla mia spasmodica necessità di divertirmi e di sentirmi libero, felice. Oggi il mio divertimento può essere rappresentato da una corsa gravel di un migliaio di chilometri, domani potrà esserlo il gareggiare in un circuito cittadino con la mia fidata scatto fisso, fra un mese potrà esserlo una scampagnata nei boschi insieme ai miei figli, tutti in piedi sui pedali.
Ma in fondo, ragazzi, quello che conta è salire in sella. E partire».
Articolo: Mauro Farina Shooting Fotografico: Stefano Tambalo Videomaking: Simone Rudari & Davide Rudari