«La mia reale passione è sempre stata la musica, prima ancora della fotografia», mi confessava qualche anno fa Chiara Mirelli in uno dei nostri primi incontri. Non sa cantare né suonare uno strumento, ma ha sempre divorato dischi e assistito a più concerti possibile, al prezzo del biglietto. «Il biglietto si compra sempre, è giusto riconoscere il lavoro degli artisti» dice, spiegando che l’accredito si chiede solo in casi eccezionali. Nominate un cantautore, una popstar o una band italiani e molto probabilmente Chiara Mirelli lo avrà fotografato: io il suo nome l’ho conosciuto e imparato così, cercando tra i credits delle foto nelle cartelle stampa, sui migliori magazine e tra i profili Instagram dei miei artisti preferiti. Cito solo i primi due nomi che che mi vengono in mente con la lettera ‘s’, Salmo e i Subsonica, ma in mezzo ci trovate gran parte della scena italiana di ieri e di oggi, e non solo, dai Ministri a Francesco Gabbani, da Marcella Bella ai Pinguini Tattici Nucleari, da Levante ai Linea 77, passando per Malika Ayane, Jake la Furia e i Calibro 35.
«Ho sempre avuto il bisogno di essere vicina al mio soggetto, di guardarlo negli occhi». Chiara Mirelli
Chi conosce anche il suo viso si è abituato, nella dorata epoca dei live interrotta dalle circostanze del 2020, a ritrovarla nei piccoli e grandi club di Milano, ai festival e ai concerti giusti, quasi mai con la macchina fotografica in mano. «Non mi è mai interessato fare foto durante i concerti», spiega, «copro il live solo se mi serve per raccontare una storia più ampia. Ho sempre avuto il bisogno di essere vicina al mio soggetto, di guardarlo negli occhi». Tranne qualche eccezione, infatti, nel suo ormai vasto portfolio non troverete molte immagini delle performance, ma piuttosto quegli scatti in bianco e nero che documentano i dettagli, tra cavi e strumenti, gesti e sguardi. A volte anche il sudore nel backstage a fine concerto, momento privato dove finisce l’esibizione carica di adrenalina davanti al pubblico e ci si abbandona, nudi – letteralmente – alla meritata tregua, all’euforia e al senso di svuotamento. Ghemon, Venerus, Cosmo, Gue Pequeno, sono alcuni degli artisti che si sono concessi per il progetto di Chiara Mirelli “Un minuto dopo”, lavoro personale a tempo indeterminato iniziato nel 2013 con i Ministri, band che segue da ormai quasi 10 anni e di cui ha un archivio d’immagini sterminato, diventato anche un bellissimo video.
Non è sempre facile avere accesso a momenti come questi, e anche quando si ottiene un sì, dietro a quel minuto ci sono ore di viaggio e di attesa in solitudine. «Scrissi ai Marlene Kuntz, spiegandogli il progetto, e mi dissero di raggiungerli in camerino dopo un concerto a Brescia. Ero arrivata là già distrutta, dopo due ore in macchina sotto il diluvio», ricorda Mirelli. «Il loro manager non mi ha risposto per ore, ho bevuto vodka tonic godendomi il concerto, e poi mi sono fatta trovare nel backstage per gli scatti. Sono arrivata a casa alle 3 e mezza del mattino, ma mentre guidavo rivedevo nella mia testa una delle foto che avevo scattato, era fighissima. Avevo fatto ore di macchina, tutto a mie spese, ma mi ero portata a casa una foto della madonna. Quando poi ti pagano per farlo è ancora più pazzesco!».
Se chiedi a Chiara di raccontarti il suo lavoro, o di qualche aneddoto legato alle sue foto, lo fa sempre con l’entusiasmo e la passione di chi si rende conto di fare il mestiere più bello del mondo, e di esserci arrivato sì grazie al talento, ma soprattutto al duro lavoro e a una capacità invidiabile di mettersi in gioco, affrontando le situazioni più scomode, che spesso iniziano e finiscono a Casorate Primo, in provincia di Pavia, l’oasi di tranquillità in cui è cresciuta e dove continua a vivere, a mezz’ora di macchina dalla frenesia milanese.
«La mattina vendevo il silicone Saratoga e al pomeriggio frequentavo il corso di fotografia. Facevo pratica scattando nelle mie campagne, e poi imparavo a stampare». Chiara Mirelli
«Ho preso qui in provincia il mio diploma di ragioneria, mia madre all’epoca diceva mi sarebbe tornato utile», racconta seduta a gambe incrociate in una poltroncina azzurra, vintage come molti dei mobili che arredano gli spazi della sua casa di campagna. Dopo le scuole superiori, si era iscritta alla facoltà di Giurisprudenza di Pavia. «Quando mi sono resa conto di voler fare la fotografa, relativamente tardi, ho cercato una scuola: il Cfp Bauer a Milano proponeva un biennio con frequenza obbligatoria, così ho mollato Legge». In lizza con altri 240 candidati e senza nessuna esperienza, era impensabile conquistare uno dei 20 posti disponibili. Chiara Mirelli non si è arresa, e quell’anno si è iscritta a un corso di camera oscura alla Scuola Civica di Milano, mentre per pagarsi gli studi lavorava nel call center di Saratoga. «La mattina vendevo silicone e al pomeriggio frequentavo il corso. Facevo pratica scattando nelle mie campagne, e poi imparavo a stampare». L’anno dopo, imbracciando il suo primo portfolio, è stata ammessa al Cfp Bauer, dove si è diplomata nel 2001. Subito dopo sono arrivati i necessari anni di gavetta come assistente, fondamentali per imparare sul campo, ma spesso frustranti. «Mi sono sicuramente serviti per capire quello che non mi sarebbe piaciuto fare», racconta. «Capii che non mi interessavano né lo still life, né tantomeno la moda, perché la protagonista era la giacca, e a me interessava la persona dentro a quella giacca».
Per rompere la monotonia, Chiara Mirelli si è lanciata in una di quelle esperienze che David Foster Wallace avrebbe definito divertenti e da non rifare mai più, e che lei ricorda come molto più che divertente e senza dubbio folle: per un anno ha lavorato come fotografa a bordo di una nave da crociera nei Caraibi, 7 giorni su 7 in uniforme, ligia al rispetto delle regole del Capitano. «Di fotografia non credo di aver imparato nulla, ma ho stretto amicizie che durano ancora oggi» dice. Questo lavoro, come e più di tanti altri, non è infatti fatto solo di creatività e di professionalità, ma anche di fiducia e di rapporti che spesso valicano i confini di quella professionalità, nel senso migliore del termine. Prima di tutto va guadagnata la fiducia dei photoeditor per avere la possibilità di cominciare a lavorare come autori. Fu Marco Finazzi, nel 2006, a dare a Chiara il suo primo assegnato per Vanity Fair, dopo aver visto alcune foto realizzate a Radio Deejay con l’aiuto dello speaker Nikki. «Si ricordava di me dopo un corso di photo editing che avevo frequentato sempre all’istituto Bauer. Mi chiese di documentare in pellicola la trasmissione mattutina di Linus “Deejay Chiama Italia’” passando con loro due mattine intere. Ricordo che era il ponte del 25 aprile e che fu un’impresa trovare qualcuno che sviluppasse i rulli nei tempi strettissimi del settimanale».
In quegli anni Chiara, già con quello stile che la contraddistingue, fatto di bianchi e neri contrastati e un sapiente uso della luce, ha fatto di tutto per costruire il suo portfolio musicale, senza mai abbandonare un metodo molto semplice ma faticoso che, per sintetizzare, prevedeva di “rompere le palle ai musicisti”. «Li contattavo tramite la mail che trovavo sul sito e chiedevo di poter scattare loro delle foto, a casa o in studio quando possibile, oppure al parco». La primissima, da cui è partito tutto, la scattò a un gruppo di amici che si erano esibiti a una festa della birra in provincia di Pavia. «Matteo, il bassista, ha suonato anche con la Pausini; Chris, chitarrista, ha lavorato con Neffa e ora collabora con Ramazzotti, mentre il batterista, Cesare, suona coi Casino Royale. È stato Chris a presentarmi Jack Jaselli, per esempio, che ho seguito per anni e con cui è nato anche un bel rapporto di amicizia». Anche con i Calibro 35, di cui cura da alcuni anni la comunicazione dal punto di vista fotografico, Chiara ha costruito un rapporto di reciproca stima. «L’anno scorso abbiamo fatto uno shooting nel giorno del mio compleanno: se lo sono ricordati, e mi hanno perfino portato i pasticcini».
Chiedo a Chiara, che non scatta solo musicisti, ma anche atleti per il settimanale Sportweek, o documenta la vita di piloti e meccanici nei box di Aprilia durante i Gran Premi, se ci sia qualche differenza nel suo approccio a seconda del professionista che ha davanti. «Una persona è sempre una persona» risponde, «un calciatore è come un cantante: scattare in palestra anziché in sala di registrazione non cambia la sostanza del ritratto». In questo, riconosce Chiara, gli anni di lavoro con Glamour sono stati fondamentali. “Ho collaborato con loro da freelance per 6 anni, senza mancare mai un numero, ed è stato un fantastico rodaggio: mi sono ritrovata a fotografare moltissime persone normali che non erano abituate a farsi ritrarre, dalla casalinga alla maestra, al gruppo di donne che avevano mollato il lavoro per darsi allo yoga». Persone con corpi normali, vestiti normali, spesso colte nelle loro abitazioni o nei luoghi di lavoro, ben diversi da un set. La vera sfida per portare a casa la foto, in quel caso, è mettere a proprio agio qualcuno che spesso è in imbarazzo. “Prima di scattare capita che ci chiacchieri per mezz’ora, per trovare qualche punto in comune. Se la persona si rilassa, riesci a farle fare cose che altrimenti non farebbe».
La regola non vale solo per la casalinga di Voghera, ma anche per il cantante più rigido o restìo ad abbandonare la posa canonica o l’uniforme. «Alla fine di ogni shooting e della serie di foto più classiche, mi piacerebbe sempre poter fare qualcosa di folle», spiega. «Quando c’è budget, sul set lavoro spesso con il mio amico truccatore Piero Marsiglio, e se l’artista si presta gli proponiamo sempre qualcosa di insolito». È così che sono nate le immagini che Samuel Romano, storico frontman dei Subsonica, ha usato per cover e booklet de Il codice della bellezza, il suo primo album da solista uscito nel 2017. «Alla fine dello shooting concordato con Sony, abbiamo chiesto a Samuel di togliere il cappellino e iniziato a coprirgli il volto di polvere dorata, poi siamo passati ai glitter. Piero glieli lanciava addosso mentre lui stava disteso per terra. La sua stylist mi ha detto che in 20 anni non lo aveva mai visto prestarsi a nulla del genere. Noi non avevamo niente da perdere, e alla fine sono state proprio quelle le immagini selezionate da lui e dall’etichetta per l’album». Nello scorso mese di luglio, dopo aver realizzato un lavoro per Lamborghini che uscirà nelle prossime settimane sulle pagine della casa automobilistica, Chiara Mirelli ha raggiunto Samuel sul caicco a bordo del quale si era esibito per il tour estivo Golfo Mistico nelle Eolie, e ha realizzato lì le nuove foto promo, convincendolo a gettarsi in mare vestito, e portandolo alle pendici del vulcano attivo sull’isola di Stromboli, tra ceneri e lapilli.
Salmo qualche anno fa ha accettato di farsi fotografare da lei alle 2 del mattino immerso in una vasca di acqua gelida, colorata con dello sciroppo alimentare che il fratello aveva recuperato per l’occasione nel bar sotto casa. Certo, non sempre la persona che ci si trova davanti è intenzionata a collaborare, e bisogna adattarsi: la parola magica, per Chiara Mirelli, è improvvisazione, a patto di arrivare sempre preparati e con qualche idea per cavarsela anche quando ci sono pochi minuti a disposizione. «La prima cosa su cui mi preparo sono i nomi, ho un’enorme difficoltà a ricordarli: prima di andare a fotografare Candreva, ho passato l’intera mattinata a ripetere nella mia testa ‘Antonio, Antonio, Antonio’, pensando all’amico di mio padre per non dimenticarlo». Quando il budget non c’è, Chiara Mirelli lavora da sola, portando con sé una luce a led che tiene con la mano sinistra per illuminare i soggetti mentre scatta con la destra, o chiede una mano al manager e al procuratore di turno, che diventano per un attimo assistenti. «In quelle situazioni, pur di avere una buona foto vale qualsiasi cosa». Le chiedo se ci sono mai volte in cui diventa così faticoso da voler mollare. «È faticoso e noioso solo quando devo fotografare cose che non ho voglia di fare», risponde, «solo in quel caso penso che piuttosto sarebbe meglio fare la cameriera. Con i matrimoni, per esempio, si guadagna bene, ma non ne vale più la pena. È vero, devo lavorare per vivere, ma nei periodi in cui non ho degli assegnati, piuttosto che star ferma ricomincio a scrivere via mail e a propormi, come una volta: se non devo investire grandi budget capita che lo faccia anche senza farmi pagare, per il mio piacere personale o per avere le foto di una determinata persona che stimo». Le chiedo se ha qualche rimpianto. «No, mi dispiace solo non essere riuscita a convincere a farsi fotografare Gianni Morandi, quando l’ho incontrato in un backstage». Ha provato anche a spiegargli che sua madre era la sua fan numero uno, ma purtroppo, questa volta, non ha proprio funzionato.
Articolo: Alessandra Lanza Shooting fotografico: Chiara Mirelli – Alessandra Lanza