Massimo Vignelli, indimenticato designer di caratura mondiale, amava sottolineare come la disciplina del design fosse una e unica: per ogni ambito sono dispensabili competenze specifiche, ma se si è davvero in grado di progettare una cosa, nessun altro progetto è precluso. Il ragionamento di Vignelli è totalmente aderente alla personalità di Carlo Trevisani.Veronese di nascita e nomade per esigenze lavorative, Carlo Trevisani rappresenta in tutto e per tutto il dinamismo che dovrebbe contraddistinguere ogni cultore del mondo del design, con una particolare predilezione nel riprogettare oggetti del nostro quotidiano alla luce di un loro utilizzo in un contesto sociale differente anche solo rispetto a pochi anni fa.
Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione di “Sofia”, un progetto nato grazie a un incontro fortuito all’iconico Bar Basso durante il Salone del Mobile di Milano dello scorso anno con un giovane imprenditore canadese. Da un semplice drink è nata una collaborazione che ha portato al disegno e allo sviluppo di un macinapepe prodotto in Canada con legni delle foreste nordamericane, ma pensato e progettato con gusto italiano. Sofia ha ottenuto da subito un significativo riscontro venendo premiato con il “Gran Prix du Design du Quebec” 2015 e selezionato nel prestigioso “ADI Design Index”.
Carlo, la vetrina dei tuoi lavori presente sul tuo sito presenta già una serie cospicua e varia di progetti realizzati in svariati ambiti del product design. Qual è stata la molla che ti ha portato a diventare un product designer?
Sinceramente? Da ragazzo non sapevo nemmeno cosa fosse il design. Da studente di ragioneria termini come grafica, interior e product design erano per me concetti vuoti, coperti da una coltre di nebbia. La svolta nacque quando, finite le scuole superiori, ebbi l’occasione e l’intuizione di provare a entrare all’ ISIA di Faenza, l’Istituto per l’alta formazione artistica. In quel momento quella foschia che mi impediva di vedere si diradò piano piano. Ho scoperto in breve tempo la meravigliosa sensazione che può provare un animale nel suo habitat naturale: come un pesce ho capito quale fosse la mia corrente e ho imparato a nuotare con tranquillità e naturalezza.
«Ho ripreso negli ultimi anni la passione mai sopita per la realizzazione di oggetti di scena per il cinema; una sorta di ritorno al passato». Carlo Trevisani
Dopo quattro anni di percorso accademico, ho dedicato altri diciotto mesi alla stesura della tesi. Di questi ne ho persi sei in una ricerca legata alla produzione di oggetti di scena per il cinema e il teatro: non essendo oggetti di produzione seriale sono stato costretto a virare lo studio verso altro, e ho affrontato le proprietà chimico-fisiche della cera e della paraffina in un ambito illuminotecnico. Ho realizzato dei prototipi di lampade non producibili in serie se non a costi assurdi; un’ottima palestra che mi ha motivato ad affrontare tematiche progettuali legate alla professione e al rapporto con il mercato. Ho ripreso negli ultimi anni la passione mai sopita per la realizzazione di oggetti di scena per il cinema; una sorta di ritorno al passato.
Finita la tesi ti sei dedicato da subito alla libera professione?
La libera professione rappresenta per me più un obbligo legale che un percorso. Una volta laureatomi iniziai a lavorare in uno studio di Milano; contestualmente iniziai a seguire anche alcuni miei progetti realizzando piccole produzioni di serie.
Questa e successive collaborazioni sono proseguite fino al 2009, anno in cui ho iniziato sia a bussare alle porte delle aziende sia a dedicarmi anima e corpo alla produzione propria in tutte le sue fasi: dai primi prototipi fino alle esposizioni nelle fiere di settore. Quest’esperienza mi ha fatto comprendere come io non sia davvero un imprenditore: non sono in grado di gestire un business plan. Da allora tanti miei lavori sono stati integrati nei cataloghi prodotti di varie aziende nei più diversi ambiti del design.
Come è possibile instaurare, oggi, un rapporto duraturo tra un designer indipendente ed un’azienda?
Non esiste una regola fissa. In alcuni casi mi affido al mio istinto e alla mia iniziativa: cerco di identificare quali sono i brand a cui proporre e indirizzare un mio progetto, calibrandolo correttamente verso i clienti reali e possibili.
Come nascono le collaborazioni con brand importanti come, ad esempio, Atipico e Seletti?
Con alcuni marchi nasce una comunione d’intenti profonda. Ad esempio il brand Atipico ha acquisito inizialmente una mia autoproduzione di candelieri. È nata una sintonia e da quel momento è scaturita tutta una serie di progetti successivi: da una linea di specchi fino ad alcune poltroncine. Mi piace stabilire un rapporto personale solido con il committente, che deve essere dettato dal confronto e dal rapporto umano al di fuori della logica strettamente commerciale di dover rilasciare per forza un prodotto entro sei mesi solo per una mera dinamica di vendita.
Proprio da questa necessità di andare oltre le dinamiche meramente commerciali ho iniziato a collaborare con Hands On Design: un marchio creato da due designer che ha come obiettivo il dialogo tra professionisti italiani e maestri artigiani giapponesi. Grazie a loro ho avuto l’opportunità impagabile di lavorare con Takeo Shimizu, un maestro nella lavorazione del legno, realizzando insieme a lui una lampada con una qualità di lavorazione manuale impareggiabile. Oppure con Shibai Ochiai, un maestro nell’utilizzo delle lacche. O anche Sushi Nakagawa, artigiano che ha reso contemporanea la produzione tradizionale dei caratteristici secchi in legno, espandendola in modo da assecondare i bisogni contemporanei di design e di arredo.
Con ognuno di loro ho avuto il privilegio di veder realizzato un mio disegno o una mia idea. Questi pezzi realizzati in partnership sono presenti, oltre che nel flagship store milanese, anche nei più importanti show room di design in Giappone e rinomati negozi on-line.
«Gli oggetti sono delle interfacce, abbiamo relazioni con loro, ci possiamo perfino affezionare perché ci possono dare delle emozioni importanti». Carlo Trevisani
C’è un oggetto tra quelli realizzati che ti contraddistingue maggiormente?
L’oggetto che mi contraddistingue maggiormente è sempre il prossimo che realizzerò. Ce ne sono alcuni che mi rappresentano, altri che mi fanno stare molto bene e che ridisegnerei esattamente come sono, ma quello che mi piace di più sarà sempre il prossimo, perché mi donerà sempre stimoli e punti di vista differenti. Sto aggiungendo all’oggettistica anche la progettazione di elementi di arredo, e mi piacerebbe pensare ad un nuovo sistema di oggetti reinterpretando gli stessi non da un concetto meramente funzionale, ma dal punto di vista esperienziale.
Pensando, ad esempio, a come l’essere umano si rapporta con lo spazio intorno a sé. Prendiamo ad esempio le sedie: è palese che oggi si viva in modo diverso rispetto a decenni fa. Ci sediamo a tavola in maniera differente rispetto ai nostri nonni, con tempi diversi e spesso estremamente ridotti.
Questo è già un buon motivo per cominciare a ripensare il vivere contemporaneo: è una giustificazione sufficiente per dare ad una nuova produzione un motivo di esistere, piuttosto che aggiustare un dettaglio per rinnovare una linea.
I miei sforzi sono concentrati nell’unire questi cambiamenti evidenti nel nostro stile di vita correlandoli all’esperienza di chi di questi stili è il protagonista.
Oggi abbiamo un modo di vivere completamente diverso rispetto a qualche anno fa: non possiamo limitarci a cambiare due soli segni estetici nello sviluppo di un progetto. Gli oggetti sono delle interfacce, abbiamo relazioni con loro, ci possiamo perfino affezionare perché ci possono dare delle emozioni importanti.
È un percorso ancora nebuloso, ma affascinante, che sto cercando di sviscerare e identificare. Ho solo una certezza: cambiare solo qualche dettaglio senza tentare di proporre un nuovo paradigma oggi non ha più alcun senso.
«Non si tratta di copiare, ma di evolvere: prendere un qualcosa di già fatto e riproporlo in chiave innovativa, se si è bravi». Carlo Trevisani
Stiamo assistendo ad un ritorno in auge di linee stilistiche direttamente riconducibili a epoche passate. Cosa ne pensi di questa rinnovata tendenza nel realizzare prodotti dal design dichiaratamente retrò?
In qualsiasi studio di design si possono trovare colonne intere di volumi con segnalibri su oggetti famosi del passato o passati in sordina. Non si crea nulla da zero. È un fatto legato strettamente alla necessità di ricondurre uno stile al nostro vivere contemporaneo: è cambiata la tecnologia produttiva, i materiali, il modo di sedersi o di stare al mondo.
Non si tratta di copiare, ma di evolvere: prendere qualcosa di già fatto e riproporlo in chiave innovativa, se si è bravi. Altrimenti il tutto rischia di apparire come una copia spudorata.
C’è un oggetto da te realizzato che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta, nel tuo percorso da product designer?
Tutti, altrimenti non diventerebbero oggetti e rimarrebbero solo su un pezzo di carta. Sono disposto a lavorare il doppio per far raggiungere all’oggetto il motivo di esistere.
Ci sono oggetti che invece metti a riposare in attesa di dargli nuova vita dopo averli visti da un’altra prospettiva?
Non sono un designer che “mette in castigo” un oggetto. Preferisco parlare di un percorso progettuale che deve trovare ancora un’identità definita, e prima di scoprirla possono passare anche degli anni. Quando l’idea arriverà alla produzione sarà un oggetto in tutto il suo essere.
Durante la tua attività hai trascorso diversi anni a Milano, città che sta vivendo una sorta di nuovo Rinascimento. Cosa rappresenta questa città per chi, come te, “vive” di nuove tendenze per sviluppare il proprio lavoro?
Milano, fatte tutte le debite proporzioni, sta all’Italia come New York sta agli Stati Uniti: costituisce l’unica metropoli italiana in cui puoi vivere “in potenza” perché si può trovare di tutto: dalle massime espressioni della ristorazione italiana e mondiale ai maggiori eventi culturali e fieristici in Italia. Una sorta di polo di gravità per le nuove tendenze.
«Perché, in fin dei conti, ad oggi sono un designer con la valigia». Carlo Trevisani
Questo non vuol dire che non ci siano altre realtà interessanti in giro per la penisola. Ma a Milano hai tutto. Anche se il mio attuale percorso professionale mi sta portando prevalentemente verso il nord-est, ho sempre un’orbita stretta e personale che gira intorno a questa città. Non è detto che Milano non torni a essere presto o tardi il mio luogo fisico e abitativo. Perché, in fin dei conti, ad oggi sono un designer con la valigia. Non vedo l’ora di avere una vita meno vagabonda e una base in cui stabilirmi. Come una sorta di una Fortezza Bastiani personale da cui poi ripartire.
Articolo: Mauro Farina Shooting fotografico: Anna Mainenti
Si ringrazia Lyno’s & Co per la location.