Andrea D’Ottavio, Digital Entrepreneur, London, U.K.

Incontro Andrea D’Ottavio al Deus ex Machina di Milano nel quartiere Isola, il motor district milanese. Via Thaon de Revel è una strada feticcio per i bikers meneghini, grazie alle sue numerose officine per la customizzazione di moto, concept store per motoclicisti esigenti, locali vintage e barber shop. Andrea D’Ottavio arriva al Deus Cafè tenendo tra le mani uno skateboard e sulle spalle uno zainetto con il computer, mentre la sua aria pacata e la sua voce gentile non fanno presagire nulla di ciò che mi racconterà di lì a poco. Il luogo dell’incontro l’ha scelto lui, e il motivo ha che fare con un Gesù Cristo che fa surf tra le onde di Bali, di cui poi mi parlerà. Andrea D’Ottavio ora vive a Londra ed è riuscito dove molti hanno fallito: anteporre uno stile di vita, il proprio stile di vita, al lavoro. È diventato un nomade digitale o, come dicono spesso di lui, un “vagabond CEO“.

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Nasce professionalmente con una web agency nel 1996, ma ha iniziato a scoprire la potenza di Internet due anni prima, quando si è trovato ad aiutare un amico nell’apertura di una casa di cura specializzata nell’assistenza dei malati di Alzheimer. «Utilizzai Internet per fare ricerca medica, per capire come all’estero gestissero questo tipo di problemi: il fondatore della clinica era un imprenditore con poche conoscenze mediche in un’Italia decisamente poco all’avanguardia sul tema. Passavo le notti a leggere articoli sui siti americani, scoprendo che all’estero si stava sperimentando l’utilizzo di profumi e colori per evitare che i pazienti si perdessero, oltre a speciali braccialetti per localizzarli nel caso in cui si fossero allontanati. Ho iniziato a capire cosa fosse il web attraverso questo lavoro. Era il periodo di Yahoo, Mosaic, Netscape».

«Fu grazie a quell’incontro che scoprii che all’estero esistevano realtà strutturate di grandi dimensioni, ma soprattutto che in Svezia erano avanti tre anni rispetto all’Italia».

Quindi, da quel momento, internet è diventato parte integrante anche della tua attività lavorativa?

andrea-d-ottavio-11Sì. Mi occupavo di graphic design, ma con la diffusione di internet la mia curiosità si è spostata quasi naturalmente verso il web design. Entrai in contatto con un piccola web agency di Roma e iniziai a sviluppare i primi siti a casa. In poco meno di un anno aprii un’agenzia con altre persone e ci dedicammo allo sviluppo di siti web per le piccole e medie imprese.

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Un giorno arrivò una mail dal direttore della filiale spagnola di una grande web agency svedese: stavano cercando di acquisire piccole realtà digitali nei vari Paesi europei per ampliare la loro attività. Fu grazie a quell’incontro che scoprii che all’estero esistevano realtà strutturate di grandi dimensioni, ma soprattutto che in Svezia erano avanti tre anni rispetto all’Italia: la società aveva duemila dipendenti ed era quotata in borsa.

Come andò il processo di acquisizione?

Nonostante un iter lunghissimo e molte trattative, l’acquisizione non andò in porto. Continuarono, comunque, ad arrivarci proposte simili, facendoci capire che il settore era in grande fermento.

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Decidemmo, così, di coinvolgere altri investitori e diventammo una S.p.A. con un team di diciotto persone e il focus su progetti complessi di sviluppo tecnologico, dove il design divenne solo uno degli elementi dell’attività. Ma la vera svolta arrivò nel 2005, quando scoprii l’esistenza dei primi social network.

Quindi ben prima dell’avvento di Facebook?

Esatto. Un amico mi invitò su aSmallWorld, un social network dedicato a viaggi e lifestyle con accesso esclusivo: era necessario essere invitati per potersi iscrivere.

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Lo utilizzai molto per viaggiare e per incontrare persone simili a me, per stile di vita e passioni. In quello stesso periodo mi capitò tra le mani un documento redatto da una grande agenzia di comunicazione: la presentazione analizzava il nascente fenomeno dei social network,  iniziando a teorizzare il concetto di marketing legato al mondo dei social. Fu grazie a questa presentazione che capii che quello sarebbe stato il futuro per un’agenzia come la nostra. Era necessario evolversi ancora, e la direzione era segnata dai social network.

Quali furono i primi passi in questo nuovo settore?

Realizzammo da zero un social network fotografico, dotato di una grafica particolarmente avanzata per i tempi. Acquisimmo in breve tempo diecimila utenti e andai a promuoverlo presso diversi eventi a Londra, compresa una conferenza alla London Business School sui temi del futuro del web.
Poi arrivò Facebook, e dovemmo rinunciare allo sviluppo del progetto.

Un tempismo perfetto, non c’è che dire.

Facebook era ancora in fase embrionale, ma la presenza di molti altri social network mi convinse che il futuro digitale sarebbe andato in quella direzione. Così convertii l’agenzia in agenzia di social marketing.

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Rifacemmo il sito e le presentazioni e iniziammo a collaborare con grandi realtà: Lottomatica, ad esempio, per la quale impostammo una capillare attività di ascolto delle conversazioni in rete e di analisi del sentiment, oltre a sviluppare un’applicazione Facebook che simulava una schedina del gioco del Lotto che poteva essere compilata e giocata, non ufficialmente, con gli amici. Un’azione di intrattenimento e contemporaneamente di svecchiamento di un gioco che fino a quel momento si pensava avesse appeal solo tra pensionati e casalinghe.

«Sviluppammo applicazioni tipo quiz e test associandole a manifestazioni a premio: era iniziata l’era dei concorsi su Facebook, che diventò la nostra attività principale».

Un lavoro titanico, per l’epoca.

Sì, facevamo tutto a mano: non esistevano ancora i tool odierni che permettono di tracciare e monitorare le conversazioni, soprattutto sui social network. Si cercavano gli argomenti su Google per poi entrare nei forum e leggere tutte le conversazioni.

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Avevamo sviluppato delle griglie su Excel dove inserivamo tutte le informazioni trovate, classificandole e attribuendo ad ognuna diversi gradi di sentiment: il risultato erano decine di pagine di dati che avevamo condensato in un valore, il Social Popularity Index (S.P.I.): un indice inventato da noi che permetteva all’azienda di capire immediatamente il suo posizionamento (positivo o negativo) all’interno delle conversazioni on line. Fu un lavoro enorme a cui avevamo dedicato due persone, e che oggi, invece, viene svolto da appositi tool che hanno raggiunto un livello di precisione e profondità all’epoca impensabili.

Immagino che non vi siate fermati qui.

Infatti. La nostra indole tecnica ci ha permesso di capire che era possibile sviluppare applicazioni che potessero operare all’interno di Facebook. Si trattava di un’attività che non faceva quasi nessuno, quindi riuscimmo a posizionare molto bene il nostro sito su Google con quelle chiavi di ricerca. Iniziarono a contattarci molte grandi aziende: la prima fu un centro media che voleva realizzare campagne su Facebook per Tommy Hilfiger, Vodafone, Nokia, Estée Lauder e Clinique.

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Sviluppammo applicazioni tipo quiz e test associandole a manifestazioni a premio: era iniziata l’era dei concorsi su Facebook, che diventò la nostra attività principale. Fummo noi a trovare una soluzione, compatibile con la normativa vigente, che permettesse di indire concorsi su Facebook senza dover realizzare il mini sito a parte, riservando così il concorso ai soli iscritti a Facebook.

«L’attestato che noi rilasciamo è la capacità di poter mettere subito in pratica ciò che insegniamo».

Mi sembra evidente che il mondo della comunicazione sia costantemente in evoluzione, e voi con esso.

Oggi il panorama digital si è evoluto ulteriormente: non solo ci occupiamo di sviluppare le audience sui social network, ma lavoriamo alla creazione della relazione con gli utenti, fino ad ottenerne un ritorno grazie alla trasformazione delle audience in cliente. Lo facciamo tramite l’inbound marketing, con la creazione di contenuti che consentano di attrarre gli utenti per poi convertirli in clienti.

La tua società non offre solo servizi alle aziende, ma di recente è nata una sezione dedicata alla formazione che ha come logo uno squalo: una scelta particolare.

Webing Academy è nata per trasferire ai clienti il know how che consenta loro di partecipare in maniera attiva all’acquisizione dei clienti tramite i social network. Organizziamo workshop in cui le persone non si limitino a seguire le slide, ma dove possano esercitarsi con l’insegnante (che abbiamo chiamato coach proprio per questo motivo). L’idea è nata riflettendo sul fatto che a Londra, dove vivo, sono frequenti sia le conferenze che i corsi dal taglio “pratico” tenuti da speaker molto quotati.
In Italia, invece, c’è troppa attenzione ad aspetti secondari della formazione (quali il rilascio di un attestato) piuttosto che all’effettivo trasferimento delle conoscenze. L’attestato che noi rilasciamo è la capacità di poter mettere subito in pratica ciò che insegniamo.

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Per quanto motivo abbiamo scelto lo squalo come simbolo: un animale notoriamente pericoloso e che ci fa paura. Paura che non appartiene, invece, a William Winram, campione mondiale di apnea in assetto variabile, che nuota con gli squali bianchi, senza gabbia. La sua esperienza ci insegna che spesso si ha paura di qualcosa perché non lo si conosce: non dobbiamo avere paura dei temi della comunicazione digitale, perché spesso è sufficiente acquisire alcune competenze per smettere di essere diffidenti o esserne intimoriti.

«Ho aperto una nuova agenzia in U.K e ho iniziato a lavorare a distanza con un team “diffuso”, diventando probabilmente la prima agenzia completamente “location independent”».

Vorrei concludere questa intervista chiedendoti come sei riuscito a realizzare un piccolo miracolo: vivi a Londra, il tuo team di collaboratori è sparso in diverse città e Paesi, i tuoi clienti anche e, sui social network, ti vediamo spesso fare surf ai quattro angoli del mondo. Come ci riesci?

Il mio trasferimento a Londra dieci anni fa mi ha, giocoforza, allontanato fisicamente da Roma, la mia città natale. Ho aperto una nuova agenzia in U.K e ho iniziato a lavorare a distanza tramite Skype e mail con un team “diffuso”, diventando probabilmente la prima agenzia ad essere completamente “location-independent”.

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All’epoca avevo una figlia ancora piccola e sia io che mia moglie avevamo un lavoro che non ci richiedeva di rimanere sempre stabili in un luogo. Era il periodo in cui iniziava a diffondersi il sito Airbnb, così approfittammo di questa opportunità: affittavamo l’appartamento di Londra per almeno sei, sette giorni, e con il ricavato ci spostavamo dall’altra parte del mondo: Bali, Costa Rica, Barbados, Marocco, qualunque posto mi permettesse di lavorare e fare surf. La passione del surf è nata proprio durante uno di questi viaggi, a Bali.

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Ero a pranzo in un ristorante in riva al mare e guardavo i ragazzi che facevano surf. Uno di questi mi colpì particolarmente: sia perché era straordinariamente bravo, sia perché somigliava, fisicamente, all’idea che abbiamo di Gesù Cristo: biondo, i capelli lunghi, la barba, il viso scavato e un corpo molto magro. Aspettai che uscisse dall’acqua e mi complimentai per la sua bravura. Una sera mi portò a cena in un locale, il Deus ex Machina di Bali: sugli schermi alle pareti venivano proiettati video che avevano per protagonisti i migliori surfisti della zona. Il mio nuovo amico, emulo di Gesù Cristo, era uno di loro: uno degli ambassador del Deus ex Machina. Per una persona come me, abituata a vivere in ufficio tutto il giorno in una grande città europea, il contesto di Bali è stato travolgente, creativo e stimolante, anche nel digitale (la città è ricchissima di coworking frequentati da digital nomads come me). Capii che di questa mia vita raminga, di questo mio nuovo e stimolante lifestyle, avrei dovuto farne una forza: non dovevo partire dal lavoro, per poi adattarvi il resto della mia vita ma, al contrario, sarebbe stato il lavoro ad adattarsi alla mia vita e ai miei desideri. Dovevo puntare la mia comunicazione sul mio nomadismo digitale, senza più tenerlo nascosto per il timore di perdere occasioni di business.

Come reagirono i tuoi clienti, le grandi aziende con cui avevi a che fare ogni giorno?

Si sono abituati molto in fretta: andavo agli appuntamenti con la pelle abbronzata fuori stagione, mi telefonavano esordendo con un “Andrea, ora dove sei? Sei in vacanza, ti disturbo?”. Non ero in vacanza, lavoravo come tutti, ma seguivo i miei ritmi.

Bali è sette ore avanti rispetto all’Italia: all’alba, mentre in Italia tutti si accingevano ad andare a dormire, io surfavo guardando il sole sorgere. Verso le cinque del pomeriggio, quando iniziava a fare buio, mi sedevo a bordo piscina, nella villa che avevo affittato, e iniziavo la mia giornata lavorativa, quando anche in Italia le persone finalmente arrivavano in ufficio.

I miei clienti hanno capito subito che la mia professionalità non era minimamente correlata al fatto che io non avessi una sede fisica, o facessi le riunioni via Skype in bermuda e infradito. Qualche potenziale cliente ha avuto difficoltà ad accettare questa condizione e lo capisco: semplicemente, abbiamo deciso di non collaborare.
Altre aziende, invece, come Ferrari automobili (per la quale ho gestito alcune campagne legate ai loro store, in Italia e nel mondo)non hanno evidenziato alcuna difficoltà.

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Con altre società ho lavorato via Skype per anni, senza mai incontrare nessuno. In alcuni casi sono stato io a proporre un incontro, dopo anni di attività, ma non per questioni legate al lavoro: solo perché mi faceva piacere bere un caffè con le persone con cui stavo collaborando ormai da tempo.

«non dovevo partire dal lavoro, per poi adattarvi il resto della mia vita ma, al contrario, sarebbe stato il lavoro ad adattarsi alla mia vita e ai miei desideri».

Milano, però, non è Bali. Soprattutto in una giornata fredda come quella odierna. E non c’è nemmeno il mare per fare surf.

Quando sono a Milano vengo al Deus ex Machina perché mi riporta con la mente al locale omologo di Bali: la prima volta che sono entrato, anche qui stavano proiettando il video del mio amico Gesù Cristo che surfava. Quasi un segno del destino.

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Non c’è il mare, è vero, ma si è veri creativi quando si riesce a trovare una soluzione a problemi apparentemente complessi: attualmente la cosa più simile ad un surf è il carver skateboard, o surf skate, che si “porta” esattamente come un surf. La sua popolarità è dovuta al fatto che i surfisti lo usano per allenarsi nei periodi in cui non è possibile scendere in acqua.
Anche Milano o Londra, quindi, possono trasformarsi in Bali. Basta avere lo skate giusto.

Articolo: Sonia Milan. Shooting fotografico: Barbara Rigon.

Questo articolo è parte di una collaborazione tra The Creative Brothers e Social Meter Analysis, che ci consente di incontrare i maggiori esperti della comunicazione digitale italiana e internazionale.

sonia milan

Giornalista - SEO - Digital Strategist

Mastica scrittura e informatica da quando i modem andavano a 14K. Ha pensato di farne un lavoro.