Alessio Foconi è lo schermidore italiano, specialità fioretto, che tra gli altri ha vinto l’oro ai Giochi europei 2015 e ai Campionati del Mondo 2017. Ci ha raccontato la sua storia di umiltà e pazienza.
Terni. Il circolo della scherma è immerso in un silenzio paradossale, spiazzante. È una mattina di fine mese e per i più la stagione è ormai agli sgoccioli, in programma non ci sono allenamenti né gare. Alessio Foconi è lì, al centro, in piedi tra le dodici pedane che corrono a tagliare ritmicamente l’intero parterre. Ha il fioretto stretto nella mano destra, la maschera sotto braccio.
Fa strano non sentire il consueto rumore degli apparecchi elettrici, quei “beep” assordanti che durante gli assalti si mischiano alle decine di lame incrociate. Fa strano riprovare certe emozioni anche quando tutto attorno a te è vuoto.
Ma questo è un luogo che profuma di qualcosa che conosco bene. Odora di armi appese a una lunga scaffalatura in legno, narra di spogliatoi e di sudore, di divise fradicie gettate negli armadietti di un corridoio. Ha il suono delle sacche trascinate e delle scarpe in gomma che fischiano con forza sopra una maglia metallica. Rimbomba di voci, di richiami, di gambe che si muovono avanti e indietro a tempo, di gesti provati e riprovati, ripetuti allo sfinimento.
Alessio Foconi è il campione d’Europa in carica e quella dove ci troviamo è la palestra che negli anni l’ha accolto spronandolo a crescere. Ne aveva sei la prima volta che vi è entrato, eppure da quel giorno non ha più voluto andarsene.
«Ormai faccio fatica a ricordare i miei assalti nei quali non ho dato tutto quello che avevo». Alessio Foconi
Oggi di anni ne ha ventinove. Gli chiedo che effetto gli fa. «Bello. Ciò che mi ha fatto restare fin da subito è stato il legame con i coetanei e i maestri. Ero un bambino molto timido ma l’insegnamento, il confrontarmi con i miei pari mi ha aiutato a esprimere la mia personalità. È importante guardarsi indietro, ripercorrere con la mente tutti quegli errori ma anche le cose positive per le quali sono arrivato fino a qui».
Il percorso di Alessio Foconi è un racconto lungo, longevo. La scherma è fatta così, cominci presto e non finisci più. Non ti esce mai.
Le foto appese a un muro documentano alcuni dei trionfi più grandi, eppure la sua storia è una strada tortuosa, un tragitto in salita. È la favola di un fiore che tarda a sbocciare, che a tratti sembra non riuscirci nemmeno, bloccato in un limbo senza gloria. Alti e bassi continui, vincere per poi perdere, guadagnare piazzamenti sufficienti a conquistare la convocazione in Nazionale Italiana, un posto nel centro sportivo dell’Aeronautica Militare senza davvero affermare a pieno il proprio potenziale.
«C’è stato un momento della mia vita in cui toccavo, magari vincevo delle gare e non sapevo minimamente come avessi fatto. Tornavo a casa e parlando con l’allora c.t. Giulio Tomassini, lui mi diceva: “va bene così, la scherma è questo. Tu tocchi perché è la sensazione, l’istinto che ti fa toccare”. È vero, però io volevo comunque sapere come ripetere le stesse mosse per vincere un’altra volta. Nulla è più controproducente di questo. Ogni avversario è una storia a sé, ogni assalto è nuovo, da riscrivere. Non ti troverai mai nella medesima situazione».
La costanza è qualcosa di estremamente complesso da raggiungere e doverla trovare a tutti i costi spesso ti macera da dentro, ti logora la testa. Per Alessio Foconi, purtroppo, è il mostro da annientare, ciò che fino ai ventisette anni lo trascina a risultati altalenanti, a terminare incontri con l’amaro in bocca.
La gara è il palco che mette in scena tutte le sue paure. È proprio la paura a bloccarlo, gli parte dalla mente e gli arriva qui, sul diaframma. Capisce, allora, che non può continuare a zittirla, deve imparare a canalizzarla per poterla giocare a suo favore. L’aprirsi a se stessi è la chiave di volta in cui decide di scommettere. «Dal 2013 ho iniziato l’allenamento mentale e lì ho scoperto come parlarmi. Tante volte dicevo: “io questa gara la devo fare bene, devo vincere”, ma questo dovere, questa costrizione mi appesantiva tantissimo. Non me ne rendevo conto. Il mio mental coach, Filippo Fanin, mi ha aiutato a indirizzare le terminologie.
Quando dovevo vincere alcuni assalti fondamentali, non usavo più la parola dovere, ma mi ripetevo: “io questa gara la voglio vincere”. E piano piano ho abituato il corpo e il pensiero a canalizzare la mia volontà e il mio obiettivo».
«Io ho toccato il fondo più volte. Toccare il fondo ti fa capire tante cose, è come se venissi dalla strada». Alessio Foconi
È l’estate del 2016 e a Rio, in Brasile, sono in corso i giochi della XXXI Olimpiade. Alessio vede uno dei suoi più cari amici, Daniele Garozzo, vincere l’oro nella sua specialità, il fioretto maschile. Tra gli atleti qualificati potrebbe esserci anche lui e invece non c’è, non ha guadagnato quel pass. Alessio è tra i primi esclusi dalla convocazione olimpica e quella finale è costretto a guardarla dal divano di casa. «Il fatto che avessi visto Daniele vincere mi ha solo dato tanta rabbia, non nei suoi confronti, ma nei miei. Sapevo che potevo essere lì e non aver raggiunto il traguardo mi ha fatto pensare. Nel 2016 avevo ventisei anni e a quell’età si inizia a fare qualche conto. Se non si riesce a carburare a una certa età poi, purtroppo, non è detto che succeda; il ct magari punta sui giovani, questi si fanno valere e tu rimani imbrigliato. Non mi è mai successo di dire “basta, smetto”.
Posso dirti, però, che mi è stato detto che i campioni si contano sulla punta delle dita. Forse la mia fortuna, anche se fortuna non è perché io volevo raggiungere determinati obiettivi e la forza di volontà era tanta, è stata quella di poter cambiare atteggiamento. E quindi mi sono chiesto: “che vogliamo fare? Ci vogliamo allenare a dovere?”».
Eppure Alessio Foconi di allenarsi non ha mai peccato, è sempre stato un grande lavoratore. A mutare è stato piuttosto il modo. Se prima l’andare in palestra poteva prevedere dei tempi morti, ora capisce che non vuole lasciare più nulla al caso. Inizia a sfruttare ogni momento, a mettere intensità in ogni cosa che fa. Tirare al massimo lo aiuta infatti a mantenere alta la concentrazione, la stessa che poi ritrova in gara, ad ogni stoccata.
«Ho intensificato anche il lavoro con il mio preparatore atletico Walter Cutrì. Lui è uno tosto, mi chiede sempre di dare il massimo. Ho cominciato a sacrificare ogni singola parte del corpo in campo per poi metterla sulla pedana. Quando mi sono aperto a questo ho visto il cambiamento e l’ho notato anche a livello mentale: c’era più serenità, c’era la consapevolezza di aver dato tutto per raggiungere un risultato. Ormai faccio fatica a ricordare i miei assalti nei quali non ho dato tutto quello che avevo, ma capisco che la mente spesso vuole crearsi una sorta di scusa. Non so se sia il genere umano a farlo, però tutti tendiamo a trovare delle giustificazioni; riuscire a metterle da parte consente di aprire le porte verso dove si vuole arrivare».
Ogni giorno da quel momento Alessio allena anima e corpo alla fatica, per tutta la settimana, per più ore al giorno. Nella testa gli risuona forte un solo obiettivo: riprendersi tutto. I successi non tardano ad arrivare e una scia positiva lo porta a scalare il ranking internazionale e a vedere ricompensate le fatiche di tanti allenamenti. Le medaglie iniziano a essere sempre più frequenti e nel 2017, alle prove di coppa del mondo, Alessio Foconi vuole assolutamente salire sul podio.
È sua Parigi, è sua la tappa di Torino, l’argento a Il Cairo e Shanghai. Il 2018, però, è l’anno che gli cambia la vita. A luglio, a sette anni da Andrea Cassarà, l’Italia torna sul gradino più alto del podio. La Cina, Wuxi, brilla sotto il nome di Alessio Foconi e lui, sul tetto del mondo, alza le braccia al cielo e grida.
È un urlo liberatorio il suo, è sacrificio che si mischia all’incredulità e percorre la schiena. Emoziona tutti. Quella medaglia d’oro, lo dice, se l’è meritata. L’abbraccio con il maestro Filippo Romagnoli è l’esempio di qualcosa costruito con dedizione, mattone dopo mattone. Non c’è superbia né sufficienza. Nei loro sguardi, nei loro sorrisi c’è piuttosto il sudore genuino di chi sa di aver lottato e di aver vinto. «Lo sport ha bisogno di questo: di umiltà. Ci sono due tipi di atleti: c’è il predestinato, quello che esplode subito, che riesce a capire, a fare quel salto di qualità e dai vent’anni ai quaranta continua a vincere. Poi c’è l’atleta che esplode tardi. E quest’ultimo, ti parlo nel mio caso, è quello che in genere prima vede il peggio. Io ho toccato il fondo più volte. Toccare il fondo ti fa capire tante cose, è come se venissi dalla strada. Ti trovi a dover sopportare situazioni che ti fanno soffrire, guardare dalle tribune gli altri vincere sono coltellate che fanno male. E il fatto di sbocciare più tardi mi ha fatto vivere tutte quelle situazioni che magari il predestinato non ha mai provato e sottovaluta perché pecca di presunzione.
Il messaggio che dobbiamo dare è di restare sempre connessi con tutte e due le parti: chi non ha mai sofferto deve sapere che si può cadere, chi ha raggiunto l’obiettivo deve ricordare che adagiarsi sugli allori non lo aiuterà. Io so che se uscissi da questa mentalità sarebbe un male. Quindi rimango sempre connesso sapendo quello che ho passato, sapendo che quelle sensazioni non le voglio più provare».
A poco più di un mese da quella vittoria assoluta, Alessio però si trova a dover fare i conti con la vita, quella che a volte ti spiazza. Ti spinge a terra. Un giorno di settembre la vita decide di portarsi via suo padre. Improvvisamente le luci calano e fanno spazio alla notte più nera. E mentre oggi Alessio è davanti a me e si racconta, io lo guardo negli occhi, l’ascolto. C’è tenacia, c’è gioia nella sua voce. Ha la spinta a migliorarsi e a chiedere sempre di più a se stesso, dal futuro. «Con papà c’era un rapporto meraviglioso. Io, lui e mio fratello abbiamo vissuto la vita in maniera particolare. La nostra società affronta la morte in modo piuttosto cupo: il funerale, l’andare al cimitero, dover stare zitti, pregare. Per noi non funzionava così. Papà era una persona che sorrideva sempre, quindi vivere con il sorriso è il messaggio che ci ha lasciato. Il giorno del suo compleanno io, mia mamma e mio fratello abbiamo aperto una bottiglia di vino che avevo vinto tanto tempo prima, l’abbiamo aperta sopra la sua tomba e abbiamo fatto festa, proprio a volerlo ricordare con felicità. Lui poi seguiva la scherma anche più di me, mi stava sempre vicino e veniva alle gare. È a lui che parlo quando sono in difficoltà durante gli assalti. Mi piace pensare che ci sia, poterci fare affidamento. È una forza in più. Poi non ti nego che fa male, fa male non poter parlare, non poter stare insieme, non poter fare più nulla, ma la sua voglia di sorridere e di andare avanti la tengo a mente insieme alla consapevolezza di voler dare ancora tanto. So che papà avrebbe desiderato essere a Tokyo e io voglio portarlo con me fin là».
Credo che ognuno di noi nasca con una predisposizione per un qualcosa che poi impara a capire nel tempo. Non c’è una regola, esiste solo una forza, una luce, un vento che via via delinea la rotta. Se deciderai di dare ascolto a ciò che indica, allora usa la tua ambizione al massimo e definisci la meta. Inseguila e sii onesto con te stesso. Le parole e i sogni vanno alimentati da dentro, a più non posso. E anche se la vita ti toglie o ti ostacola, tu non crederle. Non assomigliare mai al dolore che ti procura. Rimettiti in piedi e fai vedere che certi colpi tu li sai incassare.
Come Alessio, che ha guardato in faccia il dolore e gli ha detto di spostarsi. L’ha mandato via. Ha vinto lui. Ha vinto la vita, anche quando ti porta via qualcosa.
Articolo: Francesca Tessari Shooting fotografico: Sara Sabatino