Shi Heng Chan, maestro Shaolin: l’arte di vivere

Filosofia Shaolin: ne abbiamo parlato con il maestro Shaolin Shi Heng Chan, titolare del Centro Culturale Shaolin – Shaolin Quan Fa Milano.

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«Forse anche Milano, questa volta, mi saprà stupire». Questo viaggio mi porta a conoscere una realtà più lontana da noi di quanto non lo sia Milano, geograficamente e spiritualmente. O forse no. La curiosità è tanta: non pensavo avrei mai avuto l’occasione di conoscere un maestro Shaolin. Invece eccomi qui, al Centro Culturale Shaolin – Shaolin Quan Fa Milano per conoscere il maestro Shaolin Shi Heng Chan. Un bel respiro e apro la porta: qui ha inizio la storia.

Shi Heng Chan ci accoglie in cima alla scala che porta al cuore del Centro Shaolin, con la calma e la cordialità che mi aspettavo. A prima vista, nella sua tunica arancione, infonde un senso di devozione e allo stesso tempo di apertura. Sarà un’impressione, ma mi sento già più spirituale.

Ci attende un lungo pomeriggio di scoperte, in questo mondo Shaolin che Shi Heng Chan ha creato nel 2000 insieme alla moglie, la maestra Shi Heng Ding. Entrambi italiani di nascita, ma nell’anima e nella vita semplicemente Shaolin.

Shi Heng Chan, grazie di averci accolti in questo luogo così speciale. Si sente sulla pelle che questa è casa, per te e per chi la frequenta. Quindi oggi oltrepassiamo i luoghi comuni: puoi darci la tua definizione di Shaolin, quella che senti nel cuore?

«Shaolin è l’arte di vivere, una risorsa per la crescita della persona. Le sue discipline e lo studio della filosofia del Chan permettono a tutti di integrarsi e diventare uomini completi, sia dentro di sé che nella società.

Come il Chan insegna, ognuno di noi non deve essere solamente una comparsa. Un uomo che si avvicina alla filosofia di vita Shaolin non ha bisogno di appoggiarsi su modelli esterni o basare la propria felicità su altri per stare bene, è una persona autonoma che diventa risorsa anche per gli altri nella condivisione della sua ricchezza».

Shaolin è meditazione, alimentazione come medicina e arte marziale. Tu come ti sei approcciato a questo mondo così ampio?

«Fin da bambino, a sei anni, ho iniziato a sentire attrazione verso un certo modo di muovermi, come se un movimento controllato mi rispecchiasse di più rispetto a quello libero.

La maestra informò mia madre che quando giocavo mi muovevo esattamente come suo figlio che faceva karate, quindi il mio primo approccio a un’arte marziale è stato questo. Con il karate trovai immediatamente affinità nell’espressione motoria, ma non nella sua filosofia: io cercavo una filosofia che si avvicinasse quasi alla religione, con principi morali e spirituali che potessero fare da sfondo a questi movimenti controllati che erano espressione del mio animo.

Quando ho sentito parlare dei monaci Shaolin avevo undici anni e ho capito subito che era quello che volevo. I monaci Shaolin sono stati l’interfaccia perfetta del mio essere».

Tu sei nato negli anni Settanta. Rispetto ad oggi, allora era difficile reperire informazioni così particolari e specifiche. Come hai conosciuto lo Shaolin e il Gong Fu?

«Negli anni Settanta andava in onda il telefilm Kung Fu, con David Carradine: raccontava della vita di un bambino nel monastero e di come le arti marziali e la filosofia spirituale lo aiutassero a superare le difficoltà della vita. Il fatto che un uomo potesse rimanere una persona dignitosa, nobile ed elevata nei suoi principi anche in momenti di difficoltà mi colpì da subito. Per esempio, quando il protagonista feriva qualcuno per difesa, poi lo curava. Porsi sempre come una risorsa per la vita degli altri è l’insegnamento più grande dello Shaolin: donare agli altri quello che si è acquisito, perché chiunque prima di dare ha bisogno di ricevere e non si può dare quello che non si ha. Il secondo segno arrivò nel 1977 con l’uscita sulla rivista Banzai di un inserto con foto storiche di monaci Shaolin molto anziani. In queste foto il monaco Shi Hai Deng era addirittura in verticale su due dita, ma quello che più mi è rimasto impresso furono gli abiti dei monaci, gli stessi per l’estate e l’inverno. Attraverso la respirazione controllata i monaci Shaolin riescono infatti a controllare la termoregolazione. Io da ragazzo ero molto freddoloso, quindi questo mi ha colpito quasi di più della verticale su due dita!

Così cercai di avvicinarmi al mondo Shaolin progettando un viaggio in Cina da fare quando avessi raggiunto i ventitrè anni. A vent’anni, infatti, ho fatto il servizio civile al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) per essere in contatto con i missionari. Con loro ho imparato un po’ di cinese e mi sentivo ormai in partenza. Invece il destino ha voluto che io partissi prima per l’India, grazie a un missionario molto anziano di Calcutta. Mi parlò dell’India, degli yogi, dei brahmana, delle sacre scritture e io rimasi talmente affascinato che a ventidue anni partii. Un viaggio durato dieci anni e ad ogni scadenza del visto non perdevo occasione per trasferirmi in Cina.

Questa è stata la mia fortuna: poter studiare sia con i monaci Shaolin che con gli Yogi indiani. In dieci anni ho preso l’iniziazione spirituale all’interno della tradizione vaisnava dello Yoga vedico e anche l’iniziazione Shaolin, prendendo di conseguenza due nomi diversi. Shi Heng Chan è il mio nome Dharma cinese per la tradizione Shaolin».

Essere parte di due tradizioni spirituali lontane tra loro come quella Shaolin in Cina e vaisnava in India non ha mai creato qualche contrasto in te? Come hai trovato un equilibrio tra le due?

«Culturalmente e storicamente parlando, la tradizione Shaolin deriva da quella dello yoga: Bodhidharma arrivò dall’India e portò in Cina questa cultura dello yoga e del pranayama, che qui presero altri nomi (Shaolin Tong Zi Gong e Shaolin Qi-Gong), e assunsero forme riadattate alla cultura cinese.

 

Né l’una né l’altra tradizione sono quindi incongruenti tra loro: ho fatto approfonditi studi storici, antropologici e filosofici che i monaci Shaolin corroborano completamente e diffondono attraverso il loro sito ufficiale».

Si può dire che sei italiano di nascita, ma sei cresciuto tra India e Cina. Dopo tanti anni, qual è stato il motivo per il quale hai scelto di tornare in Italia?

«Sono innamorato della vita in India: a livello esperienziale un giorno è come un anno. Fosse per me, sarei ancora là! Sono dovuto rientrare in Italia per curare una malattia che causava l’indebolimento cronico del corpo. Quando sono tornato in India, però, ho cominciato a soffrire il viaggio in aereo e sono stato costretto molti mesi a letto. Non trovando una soluzione, il mio maestro spirituale mi ha detto di tornare in Italia e così per anni sono stato lontano dall’India e dalla Cina, con mio grande dispiacere. Su richiesta del mio maestro Shaolin, però, sono tornato in Cina nel 2012. Alla sua richiesta, io dissi stupito: “Maestro, lo sai che io non volo” e lui mi rispose: “Vieni col treno”. E così ho organizzato un viaggio in Transiberiana sul quale ho scritto anche un libro, un viaggio lunghissimo di 26.500 chilometri per raggiungere Shaolin. Se avessi potuto sarei tornato anche in India, ma purtroppo c’è l’Himalaya a dividerci. Forse nel 2020 costruiranno una “Transeuroasia” che da Pechino permetterà di raggiungere Delhi, quindi tra tre anni potrei riuscire anche a tornare in India».

La tua storia è tutta una sorpresa e lo è stata anche per te: quando hai deciso di aprire una scuola?

«Tutto è iniziato nel 2000 con i campionati mondiali di Gong Fu Shaolin che ho fatto per diventare maestro. A Shaolin per ottenere questo titolo è necessario superare un esame che consiste in una serie di combattimenti con i maestri stessi. Noi occidentali non riusciremmo a reggere a questo tipo di prova quindi, per diventare maestro, in alternativa all’esame si può presentare un elemento che sia di eccellenza come ad esempio un titolo di campione ottenuto durante un campionato mondiale.

Fortunatamente i campionati mondiali, quell’anno, si svolgevano in Italia, così nel maggio dello stesso anno ho partecipato nelle tre categorie: combattimento, armi e mani nude e ho ottenuto il primo premio in tutte e tre. Con un titolo così alto, che equivale a campione mondiale Shaolin, le porte erano aperte, ma il mio desiderio era fondare una scuola che non fosse di stampo sportivo come quelle già esistenti, ma che ricalcasse lo stampo spirituale che mi aveva ispirato da bambino, con l’imprinting originario del Tempio Shaolin. Infatti Shaolin oggi non è un luogo sportivo, ma profondamente spirituale: i monaci vogliono che il Tempio Shaolin sia conosciuto come un centro religioso del Buddhismo Chan.

 

Il Gong Fu è stato un mezzo cross-culturale per far interessare l’occidentale medio alla tradizione Shaolin, ma adesso che l’interesse si è creato si vogliono far risaltare tutte le altre sfaccettature di questa cultura e della sua filosofia. Per questo esistono Centri Shaolin in tutto il mondo, primo tra tutti lo Shaolin Temple di Berlino, e Centri Culturali Shaolin, come quello che ho fondato io nel settembre del 2000, il Centro Culturale Shaolin a Milano – Shaolin Quan Fa Milano».

I titoli di campione mondiale di Shaolin Gong Fu e di maestro Shaolin devono essere stati una grande soddisfazione per te. Dopo questi traguardi, ti sei sentito finalmente completo?

«In realtà al titolo di maestro Shaolin si è aggiunta anche l’iniziazione spirituale per me. Gli altri maestri in Italia non avevano mai fatto questa richiesta perché generalmente sono interessati all’accezione sportiva dello Shaolin Gong Fu.

Per me non era lo stesso: dopo più di vent’anni di pratica sentivo il bisogno di raggiungere anche questo traguardo interiore. Nel 2009 feci la mia prima richiesta al maestro Shi De Cheng, l’unico che veniva periodicamente in Italia, ma lui mi indirizzò direttamente all’abate di Shaolin Shi Yongxin. È stata una gioia: l’abate ha immediatamente organizzato il viaggio del suo discepolo Abate Shi Yan Da per la mia iniziazione. Shi Yan Da è poi rimasto al Centro Culturale Shaolin di Milano – Shaolin Quan fa Milano una settimana e ha apprezzato talmente il nostro sforzo che ci ha educati anche nella recitazione delle scritture spirituali buddhiste e ci ha lasciato 63 libri da tradurre dal cinese all’italiano. Così è nata la nostra Enciclopedia Shaolin, il primo contributo letterario in lingua Italiana della millenaria tradizione Shaolin che dal 2010 è Patrimonio Culturale UNESCO dell’Umanità. Questo progetto di traduzione è molto importante per noi perché nella storia si è già rischiato una volta di perdere tutte queste scritture: nel 1928 Shiyousan, un signore della guerra, distrusse totalmente il Tempio usandolo come postazione militare e cacciando i monaci con la violenza. Il Tempio ha bruciato per quaranta giorni ed è stato raso al suolo completamente, compresa la biblioteca che conteneva migliaia di testi sacri. La fortuna è stata la lungimiranza di un monaco che aveva educato il suo discepolo a studiare il cinese e la teologia in tutto il Paese, in modo che potesse poi dedicarsi alla trascrizione dei testi sacri. Così molte di queste scritture si sono salvate e oggi il Centro Centro Culturale Shaolin di Milano – Shaolin Quan fa Milano vuol dare il suo contributo per proteggere questa grande ricchezza attraverso la traduzione in lingua italiana».

Hai aperto la tua scuola in Italia. Per te, che ti sei formato culturalmente e spiritualmente in oriente, com’è insegnare lo Shaolin in Italia e che impatto ha la diversità culturale?

«Purtroppo sono testimone dell’indebolimento didattico da parte di molti maestri di arti marziali e yoga in occidente, che hanno ceduto agli interessi materiali dei loro allievi. Io non ho voluto commettere lo stesso errore: la mia proposta è dare ai miei studenti la stessa opportunità che ho avuto io di studiare Shaolin così com’è e farlo anche attraverso una formazione diretta con i monaci. Sempre per questo motivo formativo propongo anche ai bambini delle attività di introduzione allo studio della filosofia Shaolin attraverso i disegni e i colori, per fare in modo che la pratica del Gong Fu Shaolin non sia solo un’attività sportiva per “sgranchirsi le ossa”».

«Sono testimone dell’indebolimento didattico da parte di molti maestri di arti marziali e yoga in occidente».

Quali sono le attività che si praticano al Centro Culturale Shaolin di Milano – Shaolin Quan fa Milano?

«Noi pratichiamo lo Shaolin Gong Fu, lo Shaolin Tong-zi-gong che corrisponde allo yoga di Shaolin, lo Shaolin Qin Na che sarebbe la difesa personale, lo Shaolin Chan che è la meditazione Shaolin, lo Shaolin Qi Gong (ovvero esercizi di natura bio-energetica utili anche per accompagnare alla guarigione persone ammalate o sofferenti) e lo Shaolin Rou Quan ovvero il Taiji Shaolin, oltre al Taijiquan della Repubblica Popolare Cinese e allo yoga vedico posturale detto Siddhi Yoga, Diamo l’opportunità di studiare l’alimentazione e la medicina Shaolin Chan tenuti dal nostro maestro Shi Yan Hui, monaco medico a Roma. Il corso per i più giovani si chiama invece Baby Shaolin e l’ho creato perché io mi sono formato con i bambini. Quando avevo 15 anni ho iniziato a insegnare Gong Fu ai bambini per conto del mio maestro, quindi ormai sono affezionato a questa pratica e per questo sono anche stato il primo maestro a portare le arti Shaolin e la cultura buddhista Chan dei Monaci Guerrieri del Tempio Shaolin negli Istituti Scolastici italiani».

 

Com’è la risposta da parte del pubblico italiano?

«Chi si avvicina al Centro Culturale Shaolin di Milano – Shaolin Quan fa Milano generalmente è già interessato a una proposta spirituale e metafisica, perché le alternative sportive sono ampie, mentre il focus sull’aspetto più spirituale di quest’arte lo si trova solamente qui.
Le persone che vengono qui con questi presupposti sono tante, più di quello che si possa pensare».

Quindi, non ci sono dei veri requisiti per chi vuole praticare lo Shaolin, se non un’apertura mentale. Quale dovrebbe essere la caratteristica fondamentale di un allievo Shaolin?

«Lo spirito di servizio. Se la persona sviluppa questo spirito, esce dalla mentalità egoistica del ricevere senza ricambiare, mentre è proprio il prendere per poi dare che identifica la filosofia Shaolin. L’obiettivo è sviluppare un senso di “Through me”: attraverso me anche gli altri si possono elevare. È questo spirito di servizio che rende le persone una risorsa per la società. Questo spirito è la cosa più grande che possiamo apprendere dai maestri, perché ad essere egoisti o insegnare solamente per la gloria siamo già capaci, ma fare questi atti per amore è una cosa che dobbiamo imparare tutti. Adoro gli allievi che sviluppano prima di altri questo spirito, sono persone che venero silenziosamente nel mio cuore. E li ringrazio ogni giorno perché sono fonte di ispirazione anche per me. Desideriamo che le persone che si formano qui portino la loro conoscenza anche fuori e non la tengano per sé per diventare delle tombe di sapienza. Questo stesso concetto ha segnato anche me: il mio maestro mi disse “visto che non puoi più tornare in Oriente, adesso insegna ciò che hai imparato”.

 

«Adoro gli allievi che sviluppano prima di altri lo spirito di servizio».

 

Ma avevo il timore di non riuscire a trasferire la profondità di quello che avevo appreso e lui mi ha risposto: “Tu dai tutto e poi ognuno prenderà quello che può”. “Dai tutto? Ma sei sicuro?” chiesi io. La risposta fu chiara: Ma quanto a lungo pensi di vivere?”. L’insegnamento è diventata la mia strada, per non rendere la conoscenza che ho coltivato negli anni un inutile spreco».

La filosofia spirituale Shaolin è legata ad una dieta vegana. All’interno della scuola questa è una pratica rispettata dagli allievi adulti o diventa per alcuni un ostacolo?

«Il Centro è aperto a tutti, noi abbiamo un unico ordine dal nostro maestro, cioè far ripetere i cinque principi Shaolin: non uccidere, non rubare, non mentire, non fare attività sessuali illecite, non mangiare carne, uova e pesce e non bere alcol. Non c’è bisogno di pretendere il rispetto di questi principi perché il fatto stesso di ripeterli in ogni incontro fa sorgere di per sé delle domande negli allievi, alle quali cercheranno delle risposte. Poi, se saranno soddisfatti delle risposte, potranno anche cambiare la loro alimentazione o il loro stile di vita. E sono felice di constatare che per tanti di loro il cambiamento è già realtà».

Articolo: Martina Vanzo Shooting fotografico: Adriano Mujelli


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