Alessandro Zampini, il rapper Zampa (ma conosciuto anche come Zesh e Mr. Zampini) è uno dei nomi più influenti della scena rap veronese e un veterano nel panorama Hip Hop italiano. In questa intervista ci ha raccontato la sua storia con la musica e ci ha parlato dei prossimi progetti.
La musica, e tutto ciò che ruota attorno ad essa, ha un potere inestimabile: è in grado di cambiarti la vita, di aprirti il cuore, la mente e gli occhi, consentendoti di guardare il mondo sotto un’altra luce, di scovare l’introvabile e raggiungere l’irraggiungibile.
Ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con un vecchio amico, Alessandro Zampini aka Zampa; dai suoi occhi, mentre mi parla del suo viaggio assieme alla musica, traspaiono tutta l’emozione e la gratitudine di chi è stato travolto da quel potere e ha deciso di raccontare, a suon di rime e beat, le gioie, i dolori, le riflessioni e i sogni della propria quotidianità: “Cerco l’amore in ogni cosa che vivo e che faccio e se lo trovo lo scrivo, ne rido, lo abbraccio”.
Zampa aka Zesh aka Mr. Zampini è uno dei nomi più influenti della scena rap veronese, nonché un veterano nel panorama Hip Hop italiano. Un lupo solitario, come lui stesso ama definirsi, un MC che si distingue dal branco. Il suo stile è inconfondibile e personale, fatto di atmosfere malinconiche e al tempo stesso di messaggi positivi che invitano a mettersi in gioco e a non arrendersi mai, un mix di cuore e originalità, in cui a parlare alla fine è solo la Musica.
Ciao Alessandro sono trascorsi diversi anni ormai dal tuo primo lavoro come solista, “Gorilla Guerriglia”, anni in cui la musica ti ha regalato innumerevoli soddisfazioni come persona e come artista. Partiamo dalla genesi: come è iniziata questa incredibile avventura?
«Sicuramente la musica non è una tradizione familiare per me, non c’è l’ombra di un musicista Zampini neanche andando a rovistare fra i miei antenati più lontani. Da ragazzino ho iniziato ad appassionarmi alla musica ascoltando quello che piaceva ai miei genitori: Lucio Battisti, Vasco Rossi, Lucio Dalla, Mina, i grandi classici della musica italiana di quegli anni. D’indole sono una persona molto curiosa e un giorno, intorno ai dieci anni, ho deciso che volevo a tutti i costi imparare a suonare la chitarra. Ho rotto talmente le scatole ai miei genitori che sono stati costretti a prendermene una. Da lì ho iniziato a strimpellare tutti i giorni: pensa che all’esame di terza media, a scuola, ho portato la chitarra e ho suonato “Wish you were here” dei Pink Floyd.
Dopodiché ho cominciato a scrivere delle canzoni, i testi e la musica, e lì mi si è aperto un mondo. Scrivere mi è sempre piaciuto molto, a scuola i miei temi erano lunghissimi. La musica mi consentiva di usare le parole e di aggiungere qualcosa di più a quello che componevo. Dalla chitarra classica sono passato a quella elettrica e con altri ragazzi della mia età ho messo su un paio di gruppi a Verona. Il genere era quello che andava in quegli anni, facevamo cover dei Guns&Roses, Metallica, Nirvana, Vasco, Litfiba, Timoria».
La tua formazione musicale, quindi, è molto più vicina al rock che all’Hip Hop. Quando hai incontrato il mondo del rap?
«Da adolescente ascoltavo tantissimo la radio, soprattutto di notte. Ho iniziato a seguire alcuni programmi che passavano delle canzoni rap, fra tutti “Venerdì Rappa” su radio DeeJay. Quello dell’Hip Hop era un mondo molto distante da ciò a cui ero abituato, tuttavia, il fatto che rispetto alla canzone tradizionale rock o pop, come forma-canzone, il rap avesse molte più parole, mi ha affascinato sin da subito. A me piaceva scrivere e il rap mi avrebbe consentito di scrivere di più e di avere, in generale, molta più libertà nella metrica. Nel rap è possibile scrivere senza una melodia, la melodia è nel ritornello… Quando c’è.
Ho cominciato a fare un po’ di free style, da solo, semplicemente per il gusto e la curiosità di imparare; dopodiché, sempre per gioco, al termine dei primi concertini con le mie band, toglievo la chitarra e prendevo in mano il microfono per improvvisare un paio di cover rap.
Poi è arrivato quello che posso definire, forse, il mio vero battesimo: negli anni novanta, al termine dei concerti rap, si usava sempre lasciare il microfono aperto per fare del freestyle, quindi, chi aveva le palle poteva salire sul palco ed esibirsi. Durante un concerto dei Codice Rosso, una mitica formazione Hip Hop veronese composta da tre MC (Voce, Rumore e Ego) ed un DJ (Zeta), mi sono fatto coraggio e sono salito sul palco a fare le mie rime. In quell’occasione ho conosciuto altri ragazzi con la mia stessa passione. Da allora ho cominciato a dedicarmi completamente alla musica rap e non l’ho più abbandonata».
Il rap nasce alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti, nelle periferie, nei sobborghi delle grandi città e in luoghi disagiati, nasce come forma di protesta. Il tuo rap si discosta da questo stile ed è molto più introspettivo e personale. Da dove nasce la tua musica?
«Quando ho cominciato negli anni novanta, il rap e più in generale tutto l’Hip Hop italiano, erano particolarmente legati a contesti come i centri sociali e i movimenti militanti. Da lì, volente o nolente, mi porto dietro l’imprinting indelebile che per me il rap è, e sarà sempre, messaggio. Negli Stati Uniti il rap, invece, nasce come musica dei ghetti e degli afroamericani, un amplificatore straordinario per esprimere tutto il disagio di una certa classe sociale. Tuttavia, io provengo da Verona, una città piccola, con una storia completamente diversa alle spalle rispetto a New York e Los Angeles, una città in cui, per fortuna, ai tempi il rischio più grande non era quello di essere ucciso per strada in una sparatoria, ma di morire di noia durante i lunghi inverni fatti di nebbia e apatia.
Zampa: «Quando ho cominciato negli anni novanta, il rap e più in generale tutto l’Hip Hop italiano, erano particolarmente legati a contesti come i centri sociali e i movimenti militanti. Da lì, volente o nolente, mi porto dietro l’imprinting indelebile che per me il rap è, e sarà sempre, messaggio.»
Per forza di cose, quindi, ho sempre cercato di svincolarmi dal cliché del rap americano, pur amandone la forma, lo stile e la potenza. Costretti a vivere in una città culturalmente morta e opprimente, con l’Hip Hop, io e la mia crew potevamo ogni giorno creare, esprimerci, sfogarci, confrontarci e migliorarci. Come tutti i miei coetanei da ragazzini ci facevamo il viaggio di fare le cose come nel Queens, nel Bronx, i graffiti come in Wild Style, le sfide di freestyle come nei quartieri di Harleem. Ma non avrebbe avuto senso e non sarebbe stato reale affrontare nelle mie canzoni argomenti che non mi riguardavano; ho preferito raccontare la mia vita, quella di tutti i giorni, fatta di amicizie, amori, sogni, sconfitte, delusioni e bevute. La mia musica nasce dal bisogno di esprimermi e dall’esigenza di trovare un equilibrio con me stesso e poiché ho sempre scritto per me, nei miei testi c’è tanto della mia persona. Il rap è un genere di musica in cui ti metti particolarmente in gioco. È un po’ lo specchio di chi scrive, e se ti specchi in qualcosa che non è reale, il risultato non può mai essere credibile o arrivare davvero alle persone».
Nel corso degli anni ho avuto modo di conoscerti e so che sei una persona che tende a isolarsi, ma nello stesso tempo sei molto legato ai tuoi amici e al tuo branco. Questa solitudine è funzionale alla tua musica e alla scrittura?
«C’è una canzone in cui dico: “Mi chiamano Z.A.M.P.A e sono un tipo strano, giro col branco anche se sono un lupo solitario”, direi che questa frase descrive perfettamente il mio modo di essere.
Di sicuro per scrivere e registrare preferisco stare da solo, riesco a concentrarmi meglio. Ho iniziato a fare rap in solitudine, non conoscevo nessuno, ma la voglia di imbarcarmi in questa avventura era più forte del timore di essere da solo, quindi me ne sono fregato del fatto che non ci fosse qualcuno ad insegnarmi e ad ascoltarmi. Tuttavia la musica se condivisa ti dà dieci volte di più. Ed è proprio grazie al rap e a Verona che ho conosciuto persone e musicisti straordinari con i quali tuttora collaboro; molti di loro sono diventati dei veri e propri fratelli per me: Capstan, Non Dire Chaz, Sonbudo, Zeta, Jap e tutti i rapper di V.City All Star e della CS Crew. Condividere un live con persone che la pensano come te e hanno la stessa sensibilità artistica è straordinario; alla fine si può dire che io ami stare da solo… Ma in compagnia».
Zampa: «Nella mia immaginazione la musica è come un blocco di pietra per uno scultore e l’autore è quello che lavora con lo scalpello per dare una forma attraverso le parole. La musica deve parlarti e dirti quello che nasconde. Non esiste testo senza musica e non esiste musica senza testo».
Come nasce un pezzo di Zampa?
«Le mie canzoni nascono sempre dalla musica, nella musica c’è sempre già tutto. Collaboro con diversi produttori che mi mandano dei beat (basi, n.d.r.) fatti da loro, io li ascolto attentamente e provo a capire qual è quello che mi fa scattare la scintilla, metto il beat in loop, scrivo, cercando di capire cosa c’è nascosto in quella musica. Ogni tanto parto da qualche appunto o immagine che mi sono annotato prima, qualche tema che mi ronza in testa ma che ha bisogno della musica giusta. Se la base si sposa bene con l’idea che avevo in mente, la sviluppo e comincio da lì.
Nella mia immaginazione la musica è come un blocco di pietra per uno scultore e l’autore è quello che lavora con lo scalpello per dare una forma attraverso le parole. La musica deve parlarti e dirti quello che nasconde. Non esiste testo senza musica e non esiste musica senza testo».
Nella maggior parte dei titoli dei tuoi album c’è sempre qualcosa di animalesco: “Lupo solitario”, “Gorilla Guerriglia”, “I giorni del Condor” e in ultimo “Il richiamo della Foresta”. Si tratta di pura casualità o è sapientemente studiato?
«In realtà è casuale, nel senso che i titoli degli album non sono legati fra loro. Di tutti, forse, Lupo solitario, come titolo, è quello più ragionato. In parte è legato ai libri di Jack London e alla figura del lupo, che mi piace molto come animale, mi affascina il senso di libertà che trasmette.
Inoltre, non so se ti ricordi delle serie di librogame che andavano di moda anni fa: erano libri che potevano esser letti diversamente, perché all’interno c’erano varie alternative. Fra questi, in particolare, c’era una saga intitolata proprio Lupo Solitario: ne ero molto appassionato e li conservo ancora tutti a casa. Per quanto riguarda Gorilla Guerriglia, il titolo è un po’ un tornare indietro nel tempo, a quando muovevo i primi passi col rap e fra di noi ci chiamavamo “gorilla”, perché eravamo come delle scimmie impazzite. I Giorni Del Condor, più semplicemente, è ispirato al film I tre giorni Del Condor.
Il mio ultimo album, invece, Il richiamo Della Foresta, è ancora una volta un omaggio al romanzo omonimo di Jack London. Quest’ultimo album è un po’ un riassunto di tutto quello che ho fatto fino ad ora. Mi serviva a fare il punto della situazione nella mia storia musicale e personale. Ho mescolato tutto con la testa e il cuore di un trentasettenne, chiudendo così un cerchio».
Ci sono delle figure nel mondo del rap e non solo che ti hanno influenzato e quali sono state quelle più significativi per te?
«Per rispondere a questa domanda ci sono tre aspetti fondamentali da considerare: da dove sono partito, il flow ed il modo di scrivere. Tutto è cominciato a Verona, grazie ai Codice Rosso. Sono stato molto influenzato da varie tematiche contenute nei loro brani, tipo quella del branco, che in seguito ho ripreso nei miei testi.
Parlando invece di ”flow”, quindi del modo di rappare, ho preso spunto di sicuro dall’Hip Hop di oltre oceano e poi da rapper italiani come: i Sangue Misto (il gruppo di Neffa), i Colle der Fomento e Bassi Maestro.
Infine, pensando al modo di scrivere, quello che mi porto dentro proviene dalla musica che ascoltavo da ragazzino, quindi direi che sono stato molto influenzato da Vasco Rossi. Quando scrivo mi piace farlo in maniera diretta e spontanea. Ci sono autori che usano parole troppo importanti, la musica per me è magica quando ti riesce a colpire in semplicità, senza troppi fronzoli o giri di parole inutili».
Fra gli artisti contemporanei, quali sono quelli che apprezzi maggiormente?
«Ascolto tantissima musica, non solo rap. Per quanto riguarda l’hip hop seguo un po’ tutti gli artisti italiani, più che altro per la curiosità di conoscere la realtà del panorama musicale attuale. In particolare stimo molto Jack the Smoker e Bassi Maestro che conosco da tanti anni e con cui ho avuto il piacere di collaborare numerose volte. Poi reputo molto bravi Salmo e Marracash. Fra i rapper di oltreoceano, invece, i miei preferiti storici sono i Mobb Deep, Nas e The Lox, tra i nuovi mi piace molto Asap Rocky».
Riferendosi alla musica rap, in un’intervista, Bruce Springsteen ha detto: “Credo che la musica sia riuscita ad andare al di là di quella che veniva considerata solo musica di protesta e lo ha fatto in un modo fantastico”. Cosa ne pensi? Il rap può essere considerato l’attuale espressione cantautorale?
«In America il rap ha sempre rivestito una grande importanza e vanta numerosi ed illustri estimatori. La novità oggi è che questo genere sta riscuotendo un enorme successo anche in Italia .
Il rap si è sdoganato da qualsiasi cliché ed è diventato finalmente un genere musicale svincolato dai vecchi preconcetti. È ampio e con mille sfaccettature, si può mescolare bene col jazz, col rock, pop, la musica house, dub e con l’elettronica. Senza ombra di dubbio è una forma di musica cantautorale: il rapper scrive sempre in prima persona le cose che canta. La musica, in generale, per essere autentica deve essere libera e quale genere ti dà, potenzialmente, più libertà del rap? Bastano una batteria e un loop ed è possibile scrivere qualsiasi cosa».
Com’è cambiato il rap da quando hai iniziato tu e cosa ti manca maggiormente dei vecchi tempi?
«Il rap che ho conosciuto e amato va guardato sempre nel contesto dell’Hip Hop, che è una cultura che racchiude al suo interno tante discipline: rap, breaking, djing e writing. Io ho provato a ballare, a dipingere, a fare il dj… Ma visti gli scarsi risultati nelle altre discipline, ho dovuto ripiegare sul rap!
Hip Hop per me significava due cose: condivisione e aggregazione. Mi ricordo che era facile ritrovarsi in strada a Verona o in piazza Renato Simoni in quaranta, cinquanta persone, molte delle quali arrivavano dalla provincia e c’era chi cantava, chi ballava e chi dipingeva, insomma un vero spettacolo! Mi capitava spesso anche di prendere il treno e di andare a Milano dove c’era l’unico negozio che vendeva dischi rap, oppure andavo a Mantova e Vicenza alla ricerca di jam rap. Era bello condividere con altri ragazzi della mia età questa passione ed era bello stare insieme. Per carità, anche ai tempi c’erano le sfide, le invidie e gli scazzi, non era tutto rose e fiori.
Però le questioni si risolvevano in un “cypha” o in una battaglia di rime o di stile, con lealtà e onestà. Si sapeva comunque di far parte tutti di uno stesso, unico, movimento. E si era orgogliosi di questo senso di appartenenza. Oggi non esiste praticamente più niente del genere, probabilmente per pigrizia, o più semplicemente perché internet consente di avere tutto e subito restando sul divano di casa. Inoltre le discipline dell’Hip Hop non sono più legate tra di loro come una volta, si può ballare hip hop in palestra o fare pezzi rap senza sapere nulla di questa cultura».
Guardando il tuo pubblico, ma più in generale la maggior parte del popolo del rap, i fedelissimi sembrano essere molto giovani.
«Del rap ti innamori da ragazzino. Da adolescente hai più tempo libero e hai una percezione di quello che ti succede attorno molto più amplia. La musica a cui ci si affeziona in quegli anni riesce a darti delle emozioni più grandi, amplifica la rabbia, i sogni e le illusioni.
Quella musica te la porti dietro per tanto, tanto tempo. Il rap, in questi ultimi vent’anni, è riuscito a parlare ai giovani come nessun altro genere musicale, perché è un linguaggio molto diretto e coinvolgente e una musica più facile da ascoltare e da fare di tanti altri generi».
Ho avuto il piacere di conoscerti diversi anni orsono, quando eri appena tornato a Verona dall’Australia, ma smaniavi per ripartire. Il tuo ultimo album ora sembra dire il contrario: parla tanto di Verona, delle tue abitudini e dei tuoi amici. Cosa è cambiato da allora?
«A dire il vero in ogni album c’è sempre stato un pezzo dedicato a Verona, con questa città ho un rapporto di amore e odio. Verona racchiude in sé tutti i pregi e i difetti di una città di provincia. È piccola, si vive bene, però nello stesso tempo è chiusa, castrante e bigotta. Nella mia vita sono spesso scappato da Verona ho vissuto in tanti posti: a Milano, in Inghilterra, in Australia, in Belgio ma alla fine sono sempre tornato. Dopo tanti anni e tante delusioni sono riuscito a trovare un equilibrio con questa città, che mi fa vivere sereno, cosa che quando avevo diciotto anni non riuscivo a fare».
Fra i tanti viaggi che hai fatto, ce n’è stato uno in particolare, legato alla musica, che ti resterà nel cuore?
«All’inizio del 2000 ho partecipato assieme ad altri ragazzi provenienti dal Brasile, dal Belgio e dalla Colombia ad un progetto ideato da un’associazione veronese a nome Milal. L’obiettivo era quello di dimostrare come la musica, ed in particolare il rap, potesse aiutare a raccontare la propria storia a chiunque, esorcizzando contemporaneamente il proprio vissuto, soprattutto se difficile e doloroso. Durante questa esperienza ho conosciuto un gruppo di ragazzi di San Paolo, gli Z’africa Brasil, e nel 2008, dopo l’ennesimo invito, assieme ad altri rapper di Verona e di Milano – Capstan, Jack the Smoker e Kuno – siamo andati a trovarli in Brasile. Questi ragazzi ci hanno ospitato per tre settimane. Abbiamo vissuto con loro nelle favelas di San Paolo, suonato, abbiamo giocato a calcio con i bambini del luogo, parlato e scambiato le nostre esperienze con gli altri brasiliani e fatto festa con loro fino all’alba.
È stato meraviglioso percepire come la musica sia davvero un linguaggio universale e come sia in grado di farti provare un senso di appartenenza a persone sconosciute, fregandosene di diecimila chilometri di distanza. È stata una magia, un regalo incredibile ricevuto dalla vita».
Oltre alla musica hai molti interessi; qual è un’altra passione alla quale non potresti mai rinunciare?
«Facilissimo: il windsurf! Ho iniziato a star bene a Verona e ho trovato un equilibrio interiore quando ho scoperto il windsurf che, dopo la musica, è di sicuro la passione più grande che ho. Questo sport mi ha aperto un mondo: la sensazione di libertà, il vento che ti attraversa il corpo e il silenzio nel quale sei immerso; non so come spiegartelo ma il fatto di esser da solo, con la mente completamente libera mi fa sentire vivo al cento per cento. Da qualche anno sono felice possessore di un furgoncino, l’ho attrezzato con un letto e quando posso carico l’attrezzatura da windsurf e parto in cerca di pace, libertà e vento. Una tavola da windsurf, qualche beat su cui scrivere e una serata di musica con gli amici mi bastano per sentirmi in paradiso».
Con “Il Richiamo della Foresta” sei al tuo ottavo album; che progetti futuri hai?
«Mi piacerebbe portare avanti i live con i musicisti con i quali sto collaborando al momento, La Famiglia Cagnacci. Per ora quello che portiamo in giro sono essenzialmente i miei brani, arrangiati in modo tale da poter suonare con gli strumenti e non con delle basi durante i live.
In seguito, però, vorrei provare a fare il passo successivo e comporre musica direttamente con loro. Inoltre ho in previsione molte collaborazioni nei prossimi mesi senza trascurare l’esercizio quotidiano. Fare rap per me è molto simile a suonare uno strumento musicale: richiede studio, allenamento e pratica, occorre scrivere tanto, applicarsi ed esercitarsi. In particolare, al momento sono in una fase di sperimentazione, sto provando a scrivere su basi un po’ diverse, cercando di toccare tematiche a me meno familiari.
Una volta raggiunta la consapevolezza di capacità nuove acquisite l’obiettivo sarebbe quello di far uscire qualcosa che non ci si aspetta da me e rimescolare un po’ le carte: rinnovarsi è fondamentale».
“Alla mia età senza cibo per l’anima affoghi nella fredda banalità” (La Nostra Velocità – Zampa)
Articolo: Maria Pia Catalani Shooting fotografico: Barbara Rigon