Abbiamo incontrato Paola Sarappa, Music Editor per Deezer Italia in uno dei luoghi più particolari della capitale: il Pigneto. È un quartiere che mostra diverse facce a seconda del lato da cui lo si guarda. È così anche Paola Sarappa che, durante la nostra chiacchierata, ci ha regalato molti accenni sulle diverse anime che la abitano: aspirante veterinaria e pittrice prima, per passare poi alla fotografia e, infine, alla musica. Perché, in fondo, noi tutti siamo esseri compositi, ogni mondo ci può offrire opportunità di conoscenza e una via per realizzare noi stessi.
Paola, puoi raccontarci come è iniziato il lungo percorso che ti ha portata a diventare una Music Editor?
Ho convissuto fin da bambina con il sogno di fare la veterinaria e, quindi, al momento di iscrivermi all’università la scelta della facoltà è stata naturale. Passati i primi due anni, però, ho capito che quella non poteva essere la mia strada. Questa nuova consapevolezza mi portò a dedicarmi a quella che era la mia altra passione, l’arte, iscrivendomi all’Accademia.
Non è stata una decisione semplice: si trattava comunque di abbandonare la prospettiva di una professione sicura per un totale salto nel buio, quanto meno in Italia.
«sono fermamente convinta DI UNA COSA: si vive una volta sola. preso atto di questo, bisogna agire di conseguenza».
Ma sono fermamente convinta di una cosa: si vive una volta sola. Preso atto di questo, bisogna agire di conseguenza. Iniziai, quindi, il mio percorso accademico con la pittura: la vivevo come una cosa del tutto personale, una sorta di diario segreto dove sfogare tutte le mie emozioni.
Negli anni successivi mi sono poi accostata alla fotografia e in particolare al fotogiornalismo, probabilmente perché rimasi affascinata dallo studio dell’antropologia e dalla possibilità che le immagini danno per raccontare e ricostruire storie, culture e rituali.
Come si definisce il fotogiornalismo?
È molto difficile dare una definizione esatta, ma posso provare a definirne i confini per come lo interpreto io: qualunque storia si voglia raccontare, questa deve avere non solo un senso, ma anche un motivo per essere raccontata. Una volta trovato, il compito del fotogiornalista consiste nel rendere il tutto comprensibile alla sua audience, utilizzando i codici comunicativi corretti. Perché, per quanto una storia possa essere o sembrare interessante, è fondamentale sapere come e cosa debba essere raccontato.
Una volta terminata l’Accademia provai subito a intraprendere questo percorso candidandomi per un posto in un master al “London College of Communication”: candidatura che non venne accettata. Non ero ancora “fotograficamente” pronta per ambire all’ammissione.
Questa bocciatura non mi demoralizzò ma, al contrario, mi rese consapevole dei miei limiti e del percorso che avrei dovuto seguire per superarli. Rimasi a Londra iniziando un corso post laurea in fotografia digitale che mi consentì, oltre al perfezionamento della tecnica fotografica, di comprendere meglio i vari meccanismi dei corsi accademici britannici. Posso dire con certezza che la mia permanenza nella capitale britannica mi ha cambiato profondamente.
Mi sono trovata catapultata in una realtà letteralmente in grado di prenderti a schiaffi in faccia. Non puoi porti dei limiti, è fondamentale buttarsi perché altrimenti qualcuno ti anticiperà. Questo cambiamento di realtà, da Bari a Londra, ha estremamente accelerato la mia maturazione. Rientrata poi in Italia iniziai un ulteriore percorso che mi portò, in pochi anni, ad ottenere il tesserino di giornalista e a diventare caporedattrice di una testata di cronaca online.
«Mi sono trovata catapultata in una realtà letteralmente in grado di prenderti a schiaffi in faccia. Non puoi porti dei limiti, è fondamentale buttarsi perché altrimenti qualcuno ti anticiperà».
Ma non avevo dimenticato quale fosse realmente il mio sogno: volevo entrare in quel master dove ero stata respinta. Nella ricerca di un portfolio fotografico di qualità da presentare con la nuova domanda di ammissione, mi affiancai ad una mia amica che lavorava in un centro di accoglienza per prostitute tolte dalla strada. Ebbi così l’occasione di documentare la loro vita quotidiana all’interno di una struttura di prima accoglienza. Da quell’esperienza nacque un progetto molto sentito e coinvolgente: non avevo mai vissuto prima di allora delle sensazioni così forti. Quelle emozioni vennero traslate anche nei miei scatti: allegai il reportage alla nuova domanda e, questa volta, venni accettata.
Nel frattempo continuai a portare avanti da Londra il mio lavoro da caporedattrice. Un anno dopo, a fine 2011, avevo finito il master, i soldi, e dovevo guardarmi intorno per trovare un lavoro. Mi presi un anno sabbatico per capire come sfruttare le skills raggiunte grazie al mio ultimo percorso di studi.
Ed è così arrivata l’opportunità di Deezer.
Non sono una musicista, ma è sempre stata la musica a venire verso di me: sono sempre stata circondata da musicisti e ho frequentato posti dove si suonava e ascoltava musica dal vivo.
Fui contattata da un amico di Parigi che faceva il music editor per una nuova piattaforma web di musica digitale in streaming. In quel periodo si iniziava a percepire la comodità di non portarsi dietro il proprio catalogo musicale durante un viaggio. Scrissi un articolo sul tema per il mio quotidiano proprio nell’anno in cui la piattaforma di Deezer fu lanciata in Italia. Un anno dopo venne aperta ufficialmente la sede locale italiana e arrivò la proposta di diventare la Music Editor per l’Italia: non ci misi molto a decidere di accettare, sia per la mia passione per la musica, sia per l’ottima predisposizione per i social network.
D’improvviso mi ritrovai a svolgere un lavoro capace di unire tutte le mie passioni: dall’aggiornare i contenuti della piattaforma a scrivere gli articoli per il blog, dalla scelta delle immagini da utilizzare fino alla vera e propria selezione musicale: un lavoro editoriale a tutto tondo.
Nel dettaglio, quali sono i tuoi compiti nel quotidiano?
Oltre alla gestione della parte editoriale e della piattaforma, mi occupo della selezione dei brani per creare e mantenere aggiornate le playlist per l’audience italiana. Non promuovo solo quello che piace a me, ma cerco di capire quello che alla gente potrebbe piacere: cerco di interpretare le sonorità attualmente mainstream e andare alla ricerca di chicche musicali da scoprire. Esploro, e per esplorare ascolto musica fino a otto – nove ore al giorno. Non promuovo nulla che non passi dalle mie orecchie.
«Deezer consente un accesso immediato al più grande catalogo di musica in streaming esistente. La differenza non la può fare un semplice algoritmo: è fondamentale il fattore umano».
Ad oggi il mercato della musica in streaming è dominato da 3 player principali, tutti molto agguerriti e con politiche commerciali aggressive. Dal punto di vista della tua sfera di controllo, quali sono gli elementi distintivi con cui Deezer si distingue rispetto alla concorrenza?
Deezer consente un accesso immediato al più grande catalogo di musica in streaming esistente. La differenza non la può fare un semplice algoritmo: è fondamentale il fattore umano, ovvero la persona che ricopre il ruolo di Music Editor. Un algoritmo è in grado di tracciare i tuoi gusti musicali e di suggerire brani simili.
Al contrario, il ruolo di un Music Editor è quello di proporre all’utente anche qualcosa di completamente diverso, che gli possa permettere di scoprire musica molto lontana dai propri gusti convenzionali.
Nel mondo televisivo dominato dai talent c’è ancora la possibilità, per chi vale, di emergere senza dover partecipare?
Credo che in Italia si stia attraversando un’epoca di decadenza dal punto di vista culturale, dove in questo momento la televisione costituisce un mostro potenzialmente in grado di generare altri mostri. Nello specifico, per quanto riguarda i talent show, il mezzo televisivo crea in continuazione personaggi a scapito del valore della musica, che riveste un aspetto secondario. Il pubblico viene abbagliato dall’istantaneo, dall’effimero, senza comprendere se quello che viene trasmesso possa considerarsi un contenuto di qualità o no. La gente si ferma su quanto appare nel piccolo schermo invece di godersi, ad esempio, un concerto dal vivo.
Certo non è tanto o solo colpa del format dei talent show in sé. Purtroppo, il pubblico si limita all’emozione istantanea, a vivere il momento che la televisione crea ad arte senza poi approfondire. E questa è una tendenza ormai assodata di questo periodo storico. Questa fase di declino coinvolge anche l’offerta di musica dal vivo. C’è sempre meno interesse a creare eventi live alternativi ai concerti delle star, anche perché i titolari dei locali non sono incentivati in alcun modo ad organizzarli.
Ci siamo dati appuntamento al Pigneto, un quartiere di Roma che, rispetto alle ultime vicissitudini che hanno investito la Capitale, pare sia in una fase virtuosa di crescita culturale.
Il Pigneto è un quartiere che adoro perché per certi aspetti mi ricorda Londra: per le sue atmosfere, la vita notturna che gli ruota intorno, per i concerti e gli eventi live che non mancano mai.
Al contrario, in un quadro più generale, ad oggi Roma ha perso smalto dal punto di vista dell’offerta culturale.
Nella nostra capitale non riesco a trovare lo stesso fermento che si può ritrovare in tanti quartieri e sobborghi di Londra. Anche solo da punto di vista fotografico non si trovano le diversità, ma spesso si incontra solo omologazione.
Ci sono pochi stimoli, e quei pochi sono difficili da trovare. Di sicuro i cambiamenti devono arrivare dalle persone, e non da agenti esterni. È necessaria una sveglia civile.
«Nella nostra capitale non riesco a trovare lo stesso fermento che si può ritrovare in tanti quartieri e sobborghi di Londra. Anche solo daL punto di vista fotografico non si trovano le diversità, ma spesso si incontra solo omologazione».
Sono sicura che un modo per invertire questa tendenza esista, partendo da noi stessi. Ma è fondamentale non arrendersi, evitare tutte le omologazioni, non soffermarsi a dare peso a quello che gli altri pensano. Continuare a studiare e a cercare, perché il futuro è imprevedibile e perché è l’insieme delle cose che si fanno a generare le proprie competenze.
Se solo avessi scelto un percorso di studi convenzionale e una professione per così dire più “sicura”, oggi ci sarebbe al mondo una veterinaria in più e un music editor in meno.
Articolo: Mauro Farina Shooting fotografico: Leonardo Kurtz
Approndimenti: http://www.paolasarappa.com/