Una rubrica oggi più cosmopolita che mai: Giappone, U.S.A. ed Europa unite nel segno della creatività. Succede ogni giorno, nel mondo di The Creative Brothers, ma ciò che leggerete ora va oltre lo spazio geografico: vediamo come alcune tra le manifestazioni culturali locali più tipiche – dai manga ai loft della Grande Mela, fino ai proverbiali ombrelli inglesi – diventano protagoniste di espressioni inaspettate, a volte trionfanti, altre decadenti.
Hitomi Maehashi: a molti questo nome può non dire molto, se non evocare anonime eroine di manga giapponesi (specialmente alla generazione “anni Ottanta” cresciuta a suon di cartoni animati dal Sol Levante). Per quanto fondata su basi culturali traballanti, questa evocazione è decisamente azzeccata: la giovane Hitomi spicca nel modo della fotografia per i suoi tipici ritratti e selfie ritoccati fino ad assumere un tipico “stile manga”.
Nei suoi lavori – pitture digitali su fotografia con una buona dose di software di fotoritocco – il volto umano assume i tratti caratteristici dei personaggi disegnati: il risultato è da un lato buffo e festoso, vicino al fenomeno dei cosplayers e dell’attivissimo mondo “anime”, dall’altro è inquietante, legato alla tradizione del teatro nipponico e delle sue maschere. Da valutare in prima persona sul sito della galleria milanese Deodato di cui la Maehashi è tra i protagonisti.
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I cinefili probabilmente hanno sentito parlare (e bene, peraltro) di “Brick“, cortometraggio al centro del Sundance Film Festival 2016 prodotto da Christopher LaMarca e Jessica Dimmock. Parliamo di lei, Jessica: diplomata all’International Center of Photography in Documentary Photography, da anni è presente con i suoi lavori di varie prestigiose testate, tra cui l’irrinunciabile The New York Times Magazine. Nel 2007, la consacrazione con la pubblicazione “Il nono piano”, che ha ricevuto il premio F per la fotografia impegnata e il premio Inge Morath di Magnum: “Il nono piano” è quello di un palazzo che, nonostante svetti al centro di Manhattan, si rivela più vicino alle atmosfere dello zoo di Berlino che a quelle di Sex and the City. Con la sua macchina fotografica Jessica Dimmock immortala l’appartamento in cui un gruppo di eroinomani trascorre un’esistenza selvaggia, vitale e disperata, dandole voce con una fotografia forte ed empatica che, secondo una critica entusiastica, “ha saputo riscrivere le regole del genere”. Nonostante sia trascorso quasi un decennio, gli scatti di Jessica non hanno perso un grammo della propria forza: rivediamoli oggi, sentiremo ancora molto parlare di lei.
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Credits: http://www.jessicadimmockphotography.com />
Piove sul bagnato: non c’è proverbio più calzante per questa notizia divisa tra Londra e Venezia. A luglio, Palazzo Strozzi ospiterà l’edizione 2016 del Columbia Threadneedle Prize, il principale concorso europeo per le arti figurative, che proprio all’umida Inghilterra deve il suo ultimo vincitore: il quadro “Salt in tea” di Lewis Hazelwood-Horner. Tenendo a mente lo scopo per cui è nato il concorso – ridare voce e vita a un tipo di arte più tradizionale rispetto ai più “modaioli” filoni astratti, concettuali e performing – non sorprende scoprire un classico quadro a olio: può però stupire la scelta del soggetto, una scena di lavoro manuale presso il celebre negozio londinese di ombrelli “James Smith & Sons”.
Da un’ispirazione nata forse in collegamento a uno scherzo subìto dal pittore stesso da parte degli operai di James Smith & Sons (quel “sale nel tè” cui allude il titolo dell’opera, in riferimento all’irrinunciabile rituale anglosassone del tè delle cinque), sulla tela si mescolano un prosaico realismo, un’indiscutibile padronanza tecnica e un’enorme fiducia in quel lavoro manuale che, ombrello dopo ombrello, ha superato indenne quasi due secoli: un mix che ha decretato la vittoria di “Salt in tea” e di un mondo di valori, artistici e umani, cui l’Europa dimostra tuttora la propria fedeltà.
Articolo: Silvia Zanolli