La storia di Fabio Nonfarmale, style consultant di grande esperienza e collaboratore per svariati brand internazionali, potrebbe assomigliare a quella di tanti altri self made man.
Appassionato di streetwear fin da ragazzino, Fabio ha compreso molto presto come una vita da impiegato non fosse la più adatta a lui e ha puntato tutte le sue fiches su una scommessa che lo portasse lontano da schemi sicuri e terribilmente convenzionali.
Per conoscere meglio la sua storia, le sue scelte professionali e le sue sfide future, sono andato a trovarlo nella sua abitazione di Verona, città dove è nato e cresciuto.
Mi si conceda una licenza: parafrasando un famoso aforisma, la casa di Fabio rappresenta lo specchio di un’anima: la sua.
Affacciata sulle pendici dei colli delle Torricelle, nel quartiere Valdonega, l’appartamento di Fabio costituisce in tutto per tutto il suo spazio di vita: già ad un primo sguardo, una volta varcato l’ingresso, le immagini e gli elementi con cui sono stati arredati gli ambienti rappresentano una chiara testimonianza delle sue passioni: fotografie in bianco e nero tratte da reportage di guerra alle pareti dell’ingresso, libri di arte e design impilati in buon ordine, un’attenta e curata disposizione di oggetti.
Ogni cosa pare riflettere lo spirito del creativo oggetto della nostra intervista odierna. Senza scordare la sua collezione di tavole da skateboard, vere e proprie opere d’arte e oggetti da collezione che Fabio ci ha svelato durante la nostra conversazione, e i poster che rivelano una sua intensa passione per il cinema d’autore.
Grazie Fabio per averci accolto nella tua abitazione. Possiamo iniziare la nostra chiacchierata con qualche tua nota biografica?
Ho iniziato a delineare i contorni della mia vita professionale quando, a vent’anni, decisi di intraprendere un viaggio a Londra per imparare seriamente l’inglese. Presi questa decisione perché avevo capito che, dopo un anno di università, la fatica profusa per gli esami era sproporzionata rispetto alla mia ambizione di seguire un percorso accademico e perché imparare l’inglese poteva essere una scusa valida agli occhi dei miei genitori per lasciare casa.
Sono rimasto a Londra per quasi tre anni e, una volta rientrato, ho sfruttato il mio diploma di ragioneria iniziando a lavorare in un’azienda come contabile. Ma ci misi poco a capire che anche il lavoro da dipendente non poteva essere cosa per me.
Che influenza ha avuto il tuo periodo londinese nelle tue scelte personali e professionali successive?
Londra ha rappresentato una cassa di risonanza fondamentale per me e, soprattutto, per quello che sarebbe diventato il mio lavoro. Ancora prima di partire potevo considerarmi già un appassionato della moda streetwear.
Fin da ragazzo ero assiduo frequentatore di Ugolini, negozio storico di Verona, che aveva avuto il merito di portare in città, oltre allo skateboarding, anche marchi americani come ad esempio Santa Cruz, Vision Streetwear, Town & Country ed altri. Ma vivere nella capitale britannica mi ha permesso di godere di input creativi che mai avrei potuto trovare in Italia e probabilmente nel resto del mondo. Questo perché, nonostante Londra non sia considerabile come il centro nevralgico per il fashion o per le tendenze mainstream, è la città simbolo per il movimento underground. La quantità di stimoli che si possono trovare lì non ha rivali altrove. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla storia londinese degli anni 60 e 70 con l’avvento della musica punk rock e i suoi personaggi cult che hanno segnato un’epoca come ad esempio David Bowie, Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, The Who e tanti altri.
Qual è stato, quindi, il tuo primo passo come player dello streetwear?
Una volta licenziatomi, decisi di partire con una mia linea di abbigliamento denominata Stanley Parson (da Stanley Kubrick e Alan Parson Project)
Iniziai nel 2001 con una collezione di venti t-shirt, una decina di felpe e un’auto con cui macinare chilometri per andare da un negozio all’altro. Chiusi la mia prima stagione con quindici punti vendita attivati, per poi arrivare a più di duecento in tutta Europa.
È stata un’avventura di quasi otto anni costellata da fatica, successi, soddisfazioni e difficoltà. Decisi di chiudere il brand nel 2009 quando, di fronte ad una situazione di mercato poco rosea, compresi come fosse necessario in quel momento mettere da parte l’orgoglio e rimettersi in gioco. Quella decisione mi costò enorme sofferenza.
«Iniziai nel 2001 con una collezione di venti tshirt, una decina di felpe e un’auto con cui macinare chilometri per andare da un negozio all’altro. Chiusi la mia prima stagione con quindici punti vendita attivati, per poi arrivare a più di duecento in tutta europa».
Nonostante questa chiusura, negli anni precedenti avevo già iniziato a collaborare con altri marchi come Carhartt, Uniform, e Everlast come consulente.
Con quali brand di abbigliamento collabori attualmente?
Finita l’avventura con il mio brand, nel 2010 iniziai a collaborare con Andrea Rosso e 55DSL, il marchio active street di Diesel ispirato al mondo skate e snowboard. Nel 2013, alla chiusura di 55DSL, mi dedicai ad alcuni progetti personali a cui tenevo molto, come ad esempio la linea di abbigliamento Ink Addiction, in collaborazione con Beppe Strambini, tatuatore professionista di rilievo internazionale . L’opportunità di poter condividere con lui questo progetto è per me tuttora motivo di orgoglio, in quanto, oltre che un caro amico, è di fatto un uomo di cultura spassionata da cui si ha sempre qualcosa da imparare. So, thanks Beps!
A marzo 2014 venni richiamato da Diesel per seguire la Intimate Division. Ho accettato per la bellezza del progetto e per la sfida che mi è stata prospettata: dedicarmi alla realizzazione di una linea di intimo con divagazioni anche nel beachwear e nella felperia.
Diesel è un’azienda che ti mette a disposizione qualsiasi strumento per mettere in pratica l’idea che hai in testa. E inoltre hai sempre la possibilità di confrontarti con persone con elevati livelli di competenza. Non potrei chiedere di meglio.
Come si sviluppa il tuo ruolo di di collaboratore con un brand streetwear ?
Mi posso definire uno Style Consultant di prodotto, sono restìo a definirmi stilista. Mi ritengo una sorta di figlio della modernità: questa professione si è allargata negli ultimi anni con l’avvento del web e dei social media, che permettono di monitorare i nuovi trend anche direttamente da casa. Ma per me non è sufficiente. Ho la necessità di dover cogliere tendenze e stili laddove nascono e si sviluppano. Per questo motivo non manco mai di volare alla volta del Giappone, negli Stati Uniti, a Londra oppure a Berlino: dovunque ci sia la possibilità di toccare con mano le evoluzioni che stanno arrivando.
Per entrare maggiormente nel concreto del mio lavoro, solitamente l’azienda rilascia un brief contenente il focus da sviluppare. È fondamentale, in questo caso, confrontarsi sul gusto da seguire e capirsi sul tipo di prodotto desiderato: ad esempio, se si desidera raggiungere e sviluppare uno stile più street o maggiormente classico. Stabilito questo aspetto si dà inizio alla ricerca: è un lavoro che deve essere fatto a più mani. Nemmeno lo style consultant più capace è in grado di risolvere i problemi di un brand o risollevarne le sorti.
«Ho la necessità di dover cogliere tendenze e stili laddove nascono e si sviluppano. Per questo motivo non manco mai di volare alla volta del Giappone, negli Stati Uniti, a Londra oppure a Berlino: dovunque ci sia la possibilità di toccare con mano le evoluzioni che stanno arrivando».
Se sono in grado di far bene il mio lavoro è perché sono stato in grado di trovare sinergie comuni con gli altri membri dello staff creativo, produttivo e marketing e assieme ad essi siamo riusciti a tirare fuori il meglio.
Da solo puoi vincere una scommessa, ma il concetto di “successo” rappresenta per me qualcosa di molto diverso. È il frutto di un continuo confronto con le persone con cui lavori, di propensione ad ascoltare gli input che arrivano dai tutti i collaboratori, senza escludere nulla, senza mai dare nulla per scontato.
Parlando invece del lato più pratico del mio lavoro, ognuno ha il suo canale mentale di ricerca. Sono ispirato molto dalla musica, dal cinema dall’arte, dalla grafica, da ciò che non appartiene allo stesso mondo da cui provengo.
L’abbigliamento è il risultato di ispirazioni che vengono da altri mondi. La ricerca viene da lì. Quando inizio il mio percorso di ricerca trovo ispirazione più nelle esposizioni d’arte o nelle librerie che nei negozi. Certo, tenere sott’occhio il mercato è fondamentale ma l’ispirazione non può venire solo da ciò che è già stato realizzato.
Cosa intendi nel concreto quando parli di “lavoro a più mani”?
Quando dicevo di essere un figlio della modernità non stavo esagerando: non avendo manualità sufficiente non disegno a mano libera, ma solo al computer. Compilo dei moodboard ispirazionali che comprendono foto di ambienti, opere d’arte e abbigliamento. Da questa sorta di idea embrionale creo un collage per dare modo all’azienda di capire il tema e il linguaggio che ho deciso di utilizzare; linguaggio che poi verrà declinato su tutti i capi di abbigliamento della collezione.
Lì entrano in gioco tutte le conoscenze dei materiali e del confezionamento necessari a mettere in pratica l’idea che è stata generata.
In una fase successiva la palla passa all’ufficio prodotto che realizza materialmente i capi. Nel caso di Diesel tutti i primi prototipi vengono realizzati internamente, senza l’ausilio di service esterni.
Nelle tue esplorazioni alla caccia di ispirazione segui un particolare istinto che ti porta a soffermarti di fronte a un dettaglio o una dinamica che ti colpisce ?
Nella mia testa convivono due elementi che devo rendere compatibili tra loro: l’idea di come io vedo il brand per cui lavoro e gli input che mi sono stati dati e che sono alla base della mia ricerca. Tutto il processo a seguire scaturisce da questa dicotomia, ma non è necessariamente vincolata ad essa. L’esempio più calzante per spiegare questa assenza di vincolo credo possa essere il seguente: essere sposati con una persona non prescinde dalla possibilità di innamorarsi della prima persona che passa per la strada. È difficile, ma può capitare. E così accade anche nel mio lavoro: ci sono state situazioni in cui sono partito con un’idea e sono tornato indietro con tutt’altro risultato. L’idea è stata modificata e adattata a fronte di quanto ho trovato sulla mia strada e che mi ha dato la giusta ispirazione.
In altre occasioni invece sono riuscito a essere fedele al mio istino iniziale e ho trovato dettagli che si adattavano perfettamente ad essa. Non ho comunque mai uno schema predefinito. Sono istintivo. Molto, a volte fin troppo. Metto la passione davanti alla ragione. Se non si ha istinto è difficile riuscire ad avere successo in questa professione.
«Sono istintivo. Molto, a volte fin troppo. Metto la passione davanti alla ragione. Se non si ha istinto è difficile riuscire ad avere successo in questa professione».
Da quanto ho potuto vedere visitando il tuo appartamento hai una passione smisurata per il mondo delle tavole da skateboard. Questo senza mai aver praticato la disciplina. Cosa ritrovi nel mondo dello skateboarding come fonte di ispirazione per il tuo lavoro?
Del mondo skate adoro il fatto che sia una vera e propria fabbrica di idee: per sua stessa natura rappresenta un’espressione di libertà totale. Tutto quanto proviene da quel movimento è intriso di creatività. Basti pensare alla serigrafia che rende le tavole da skateboard delle vere e proprie opere d’arte e degli oggetti da collezione.
Per fare un esempio, il marchio Supreme ha sempre puntato molto su grandi artisti per personalizzare le proprie tavole. Nomi del calibro di Damien Hirst e Jeff Koons hanno realizzato opere incredibili. Così come esistono veri e propri collettivi di artisti skater, come ad esempio quello con a capo Jeremy Fish, Upperplayground, RVCA che fanno della serigrafia un vero e proprio linguaggio espressivo di appartenenza.
Dalle tue parole traspare un’intensa ricerca di un valore nelle cose e nelle situazioni che vuoi vedere e scoprire. Questa attitudine la applichi anche nelle tue collaborazioni?
Il legame affettivo è una componente per me fondamentale quando lavoro. La cerco sempre e quando la trovo diventa imprescindibile per il raggiungimento del risultato finale. Adoro le situazioni il cui contenitore è specchio di coloro che lo hanno creato, e proprio per questo riesco ad attribuirgli un valore intrinseco.
«Adoro le situazioni il cui contenitore è specchio di coloro che lo hanno creato, e proprio per questo riesco ad attribuirgli un valore intrinseco».
Per fare un esempio di quello che dico non posso non citare le mie collaborazioni con Beppe Strambini di Ink Addiction e con i ragazzi di Folks Verona.
Adoro poter essere utile in questi progetti perchè sono persone che mettono passione in quello che fanno: sono appassionati di questo stile e per questo risultano credibili anche agli occhi dei loro clienti. La credibilità della persona viene messa in risalto solamente da ciò che si è in grado di mettere in piedi. Se è in linea con le proprie passioni si può essere meritevoli di fiducia; se non lo si è si farà molta più fatica perché i tuoi clienti saranno menefreghisti .
Oltre alle tue collaborazioni con vari brand stai seguendo anche Popcornershop, un tuo progetto personale. Di cosa si tratta?
Lo definisco una sorta di social commerce. L’idea è nata dopo aver constatato come negli ultimi anni un elevato numero di negozi multibrand hanno chiuso i battenti. L’avvento degli ecommerce e la possibilità di trovare in rete prezzi più convenienti ha messo in ginocchio tanti esercenti. Il mio progetto parte proprio dalla necessità di far tornare il negozio fisico al centro dell’attenzione.
La nostra app Popcornershop ha l’ambizione di creare per il negozio un ambiente in cui poter veicolarne l’immagine, la comunicazione e il loro assortimento di brand in vendita. Garantendo in questo modo un servizio di e-commerce impossibile da gestire altrimenti come unità singola.
In sostanza, Popcornershop diventerà una community di negozi che decidono di affiliarsi a noi in concorrenza ai colossi dell’e-commerce che, avendo la possibilità di acquistare grossi volumi di capi con sconti sostanziosi, stanno dominando il mercato delle vendite online con ripercussioni disastrose su chi lavora con passione e dedizione nel mondo reale.
Dopo tanti anni di professione, Verona rimane ancora il tuo rifugio: una città che può sembrare lontana anni luce rispetto a metropoli estere che costituiscono una tappa obbligata per il trendhunting. Riesci a intravedere comunque qualche peculiarità propria del tuo mondo?
Ti ridefinisco cosa intendo io per “street”: è un mondo che rappresenta creatività, professionalità e libertà. A Verona di creatività e professionalità se ne trova, il problema è scovarla e farla emergere al di sopra di questa coltre di omologazione. Ci sono personaggi e realtà artigianali veronesi così interessanti che riflettono in tutto per tutto le peculiarità del genere “street”.
Il problema dell’emersione di queste realtà scivola nelle mere logiche commerciali. Investire in giovani artisti, stilisti e fotografi richede impegno, sacrificio e investimenti. Ad oggi il numero di persone disposte ad accollarsi questo compito è molto esiguo, perché costa fatica e non porta a un risultato economico immediato.
Tutto sta nel capire che una strada ti porta a mettere in piedi qualcosa, l’altra a mantenere lo status quo.
Articolo: Mauro Farina Contributi fotografici: Adriano Mujelli
Si ringrazia Folks Verona per l’ospitalità.