Una foto in bianco e nero, scattata da un autobus, raffigurante una giovane donna adorna di perle e dall’aspetto ben curato; la donna volge malinconica il suo sguardo altrove, distratta, quasi cercasse qualcosa o qualcuno.
Quello che vi ho appena descritto è uno dei 120 scatti, attualmente esposti a Milano alla Fondazione Forma per la Fotografia della fotografa Vivian Maier.
Vivian, chi? Sì, lo so, è la reazione che la maggior parte di noi comuni mortali non appassionati di fotografia ha nel sentire questo nome, forse perché la sua scoperta come artista è abbastanza recente. Vivian Maier nacque a New York nel febbraio del 1926 operando principalmente tra gli anni Quaranta e Settanta, offrendoci uno scorcio vivido dell’America di quei decenni. Ma quello che voglio raccontarvi è, principalmente, la passione sfrenata di una donna per la fotografia, per quel genere artistico che le permise con un “click” di entrare nei pensieri e nella vita di persone comuni; lei che a forza di essere spettatrice della vita degli altri lo fu anche della sua.
Vivian era solo una bambina di una decina di anni quando lei e la madre, separatasi dal marito, andarono a vivere da una cara amica, Jeanne Bertrand, fotografa professionista che instillò nella piccola Vivian la passione per la fotografia. A quell’età l’estro creativo è potentissimo ed ha potenzialità illimitate. Quello di Vivian mostrò da subito una particolare propensione verso un genere che, in seguito, venne definito come “ Street Photography” e di cui lei può essere definita una precorritrice.
La street photography è l’arte di imprimere nella fotografia il “qui e ora”, il saper cogliere la spontaneità di un momento. I soggetti sono catturati nella loro quotidianità, non sono in posa ma nel pieno delle loro funzioni giornaliere e il fotografo deve improvvisare per cogliere un momento di realtà mutevole.
Per quasi sessant’anni Vivian Maier fece questo: impresse la vita di centinaia di persone sulle sue pellicole; ma lo fece in incognito, in silenzio, il suo sguardo fu discreto come la sua vita.
«Ho fotografato i vostri momenti di eternità perché non andassero perduti». Vivian Maier ; 1926 – 2009
Aveva trent’anni quando, dopo un soggiorno in Francia, decise di tornare in America portando con sé il suo acquisto più grande: una Rolleifex professionale . Dopo un solitario girovagare si stabilì definitivamente a Chicago dove la giovane donna si mantenne facendo l’unica cosa che era in grado di fare: la bambinaia; e questo fece finché ne ebbe la forza. Vivian fu una tata, una donna solitaria, senza nessun legame al di fuori delle famiglie che la ospitavano; che però avevano grande stima ed affetto per lei. Una delle sue bambine la definì ”la mia Mary Poppins”.
Una tata dolce ed affabile ma allo stesso tempo alquanto singolare, estremamente gelosa della sua stanza al punto tale da richiedere di poterla chiudere con un lucchetto; che nel suo passare di famiglia in famiglia portava con sé decine di scatoloni. Cosa contenevano questi scatoloni? Le sue foto ovviamente, e moltissimi rullini mai sviluppati. Vivian era così, nelle giornate libere faceva lunghe passeggiate durante le quali scattava foto su foto. Immortalava volti, situazioni, sorrisi rubati, sguardi pensierosi, mani operose, e tutto ciò che potesse colpire la sua sensibilità d’artista. Una volta tornata a casa, conservava con cura tutti i suoi rullini che custodiva gelosamente, quasi contenessero quelle fragili emozioni da lei rubate per strada. Solo un numero esiguo di scatti ebbe la fortuna di essere stampato, cosa che tra l’altro in alcuni casi fece lei stessa usando il suo bagno privato come camera oscura.
«Per quasi 60 anni Vivian Maier fece questo: impresse la vita di centinaia di persone sulle sue pellicole; ma lo fece in incognito, in silenzio, il suo sguardo fu discreto come la sua vita».
Credo che Vivian fosse consapevole della fortuna che avesse nel poter osservare gli altri così da vicino, celandosi dietro un obiettivo che faceva da filtro tra lei ed il mondo. Per lei era importante cogliere l’attimo, non riprodurlo in una stampa, quasi come se ogni suo “click” fosse un ricordo impresso nella sua memoria.
Per anni nascose al mondo la sua arte, fino a quando il diavolo non ci mise lo zampino. Con l’avanzare dell’età Vivian non potè più fare la tata e una volta ritirata a vita privata si trovò ad affrontare non poche difficoltà economiche. Fu così costretta a depositare le sue amate scatole contenenti foto, rullini ed altri oggetti personali in un box preso in affitto e si trasferì in un piccolo ed economico appartamento. Fortunatamente i fratelli Gensburg, di cui era stata la tata amorevole in gioventù e con i quali aveva mantenuto negli anni costanti contatti, decisero di prendersi cura di lei sistemandola in un alloggio più grande e centrale. Vivian si spense in indigenza nel 2009, circondata esclusivamente dall’affetto dei Gesburg, senza mai scoprire che proprio in quegli anni stava diventando un artista di fama internazionale. Fortuna? Caso? Destino? Decidete voi, ma nel 2007 un ragazzo di nome John Maloof, impegnato nella ricerca di foto d’epoca per un libro su Chicago che stava scrivendo, acquistò a un’asta il contenuto di un box espropriato per legge ad una donna che aveva smesso di pagarne l’affitto. Il box era pieno di ogni tipo di cianfrusaglia: scontrini, biglietti del tram, gioielli di poco valore ed un numero spropositato di rullini. Da quel momento Maloof divenne il proprietario e l’unico curatore di uno sterminato archivio fotografico composto da oltre 100.000 scatti che girano il mondo con grande successo.
«Non posso non domandarmi cosa penserebbe nel vedere oggi le sue foto esposte in giro per il mondo, contemplate e studiate minuziosamente, e la sua vita in mano ai media. Probabilmente si sentirebbe violata. Forse Vivian, nella sua semplicità, aveva capito la vera essenza dell’arte».
Come da quel momento in poi Vivian divenne da semplice bambinaia con il pallino quasi maniacale per la fotografia ad artista acclamata, poco importa; basta guardare le sue foto per capire che è un successo meritato. La cosa che veramente colpisce è questa donna, avvolta da un alone di mistero. In molti, approcciandosi a lei, si sono domandati se non avesse addirittura una forma di malattia mentale. Un’artista che crea incessantemente, mai sazia del suo lavoro; che crea in solitudine e non affinché il suo operato sia condiviso con il mondo, cosa che invece dovrebbe essere la sua destinazione più naturale.
Non posso non domandarmi cosa penserebbe nel vedere oggi le sue foto esposte in giro per il mondo, contemplate e studiate minuziosamente, e la sua vita in mano ai media. Probabilmente si sentirebbe violata. Forse Vivian, nella sua semplicità, aveva capito la vera essenza dell’arte. Un’arte che è sacrosanto dovere condividere ma che va realizzata principalmente come appagamento personale, come sperimentazione e ricerca dentro e fuori di noi e che solo successivamente può essere esternalizzata per renderne partecipe il pubblico.
Ma questo non lo sapremo mai. «Ho fotografato i vostri momenti di eternità perché non andassero perduti», scrisse in una sua lettera; forse questo potrebbe bastare a spiegarci cosa spingesse Vivian a realizzare i suoi “click”.
Articolo: Eva D’amico