Elena Francia è Area Manager Italia di Castel Sallegg, storica azienda vitivinicola altoatesina con sede a Caldaro (BZ). In questo editoriale Elena ci presenta il suo punto di vista privilegiato sulla produzione vinicola dell’Alto Adige.
L’Alto Adige è una regione capace di stupire. Lo dico con convinzione, non solo da professionista addetta ai lavori nel settore vinicolo, ma anche come donna che ha deciso di stabilirsi qui dopo anni passati all’estero. E lo affermo anche da piemontese doc, originaria del Monferrato, terra rinomata in tutto il mondo per i suoi rossi che non ha bisogno di presentazioni. Sì, perché, a differenza del Piemonte, in zone come Barolo e Barbaresco, il cui potenziale è già noto da tempo e ben espresso in ambito nazionale e internazionale, l’Alto Adige, con le sue diciassette tipologie di vitigni – dal più diffuso Pinot Grigio fino alla produzione di nicchia del Moscato Rosa, introdotto in Alto Adige da Castel Sallegg nel 1892 – vanta una diversità di produzione e un relativo microclima favorevole forse unico al mondo. Ma, soprattutto, ha intrapreso da decenni un cammino verso la qualità, l’innovazione e l’internazionalizzazione ormai fortunatamente irreversibile.
Da dove deriva questa mia convinzione? Dal 2000 ad oggi la superficie vitata è rimasta quasi immutata con circa 5400 ettari, ma si è passati dal 46% di viticoltura per vini bianchi al 62%, di cui la metà costituiti da Gewürztraminer, Pinot Bianco e Chardonnay, Sauvignon Blanc, mentre coltivate in percentuali minori troviamo Kerner, Moscato Giallo, Riesling, Mueller Thurgau, Sylvaner e Veltliner.
Oggi le statistiche ci raccontano un territorio con un 98% di vini con denominazione DOC, a testimoniare l’enorme lavoro sul tema della qualità intrapreso nel corso degli anni. I tre bicchieri del Gambero Rosso, i punteggi alti di Robert Parker e di James Suckling, solo per citarne alcuni, confermano che la direzione presa è quella giusta. Se confrontassimo un’edizione della guida Gambero Rosso di vent’anni fa con una di oggi questo cambiamento epocale risulterebbe ancora più marcato.
Le cooperative sociali sono state un traino importante in questa evoluzione perché hanno puntato sulla qualità. È proprio il caso di dire che in Alto Adige si può lasciare da parte il luogo comune che associa le cooperative all’ambito del vino sfuso e dalla semplice beva: qui la qualità rappresenta un must have.
Ma come si è giunti ad un livello qualitativo così elevato? Parliamo di un processo lungo a cui tutta la viticoltura altoatesina ha partecipato con un intenso lavoro di squadra, perché un territorio non può essere fatto da un singolo, ma nasce solo dalla volontà di un grande gruppo.
Tra i grandi personaggi che hanno fatto da traino a questo cambiamento non si può non menzionare, tra gli altri, Hans Terzer, enologo dalla cantina di San Michele Appiano e Luis Raifer, per tantissimi anni direttore e presidente della cantina sociale di Colterenzio. Entrambi sono stati dei mind setter e hanno contribuito a porre l’Alto Adige al fianco delle storiche e blasonate zone d’Italia come il Piemonte, la Toscana e il Friuli. La chiave di volta per l’Alto Adige è stata quella di valorizzare il potenziale dei conferitori sostituendo, ad esempio, la Schiava con alcune delle varietà più richieste dal mercato, riducendo le rese produttive in favore di una produzione di maggiore qualità, mirata a coltivare ogni uva nel giusto terroir.
Da un punto vista puramente numerico il ruolo delle cooperative è stato importante poiché la proprietà di superficie media è in Alto Adige circa un ettaro. Spesso, quindi, l’agricoltore è spinto a conferire le uve a una cantina sociale e non a vinificarle in quanto i costi di produzione sarebbero troppo elevati.
Le cantine famigliari non sono certo state a guardare, si sono fatte guidare dalla loro storicità e dalla loro ambizione, Vivo personalmente questa realtà a Castel Sallegg, storica cantina di Caldaro, dal 1851 in mano alla famiglia Kuenburg con trenta ettari di vigne tra il paese e l’omonimo lago. Negli anni si è raggiunta una piena coscienza dei propri mezzi, si è rafforzata la conoscenza in vigna e in cantina e come sfruttare al meglio i nostri terroirs. Se nel mondo produttivo spesso i cambiamenti sono più celeri, in vigna sono più lunghi: ci vogliono circa cinque anni per ottenere il primo vino e almeno venti prima che le vigne si possano esprimere al meglio del loro potenziale.
Un altro ruolo importante è quello svolto del Consorzio Vini Alto Adige, punto di riferimento per tutti gli attori che ruotano intono al mondo vitivinicolo per tutte le questioni strategiche, tecniche, normative e culturali.
Il Consorzio si occupa della partecipazione delle cantine agli eventi fieristici del settore come la Pro Wein di Düsseldorf e il Vinitaly a Verona, organizza le Masterclass in Italia e nel Mondo così come le degustazioni e gli inviti a giornalisti del settore. Il ruolo del consorzio è strategico rispetto allo sviluppo e alla visione della viticoltura altoatesina nei prossimi decenni, e poggia su due parole chiave: zonazione e sostenibilità.
Per zonazione si intende la mappatura dettagliata delle vigne altoatesine, fondamentale per la conoscenza di tutti i terreni e i microclimi e per poter così determinare l’habitat più adatto per ogni uva. Questa attività di fondamentale importanza è peculiare delle zone vitivinicole più rinomate al mondo, tra le quali spiccano la Borgogna e il Barolo.
Riguardo la sostenibilità, un concetto a tutto tondo che copre la dimensione ambientale, sociale ed economica, Il consorzio ha definito nell’agenda 2030 le linee guida che consentiranno alla viticoltura altoatesina di distinguersi anche nell’ottica di una produzione sempre più rispettosa della natura e, appunto, sostenibile. Senza dimenticare, però, i percorsi intrapresi da alcune cantine per ottenere le certificazioni di produzione biologica o biodinamica che cambiano sostanzialmente gli aspetti produttivi nella viticoltura e nelle pratiche in cantina.
L’Alto Adige non mi stupisce solo per i vini bianchi: anche i rossi non scherzano e si esprimono bene grazie a varietà internazionali quali Pinot Nero, Merlot e Cabernet Sauvignon.
In particolare, le ultime due varietà di taglio bordolese crescono bene intorno al Lago di Caldaro, che ha un microclima più caldo e quindi i tannini possono raggiungere la piena maturazione, punto fondamentale per evitare l’astringenza al palato e, in secondo luogo, per donare una precisa struttura tannica.
In tema di vini rossi, Castel Sallegg produce tra gli altri il “Nussleiten”, un’edizione limitata di Merlot in purezza che ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui la medaglia d’oro alla competizione Mundus VIni.
Degni di nota poi sono sicuramente gli autoctoni Lagrein e la Schiava – in tedesco “Vernatsch”, dal latino “Vernaculus” cioè indigeno -. Negli ultimi decenni la sua produzione si è ridotta notevolmente a favore delle uve internazionali a bacca rossa e del Lagrein.
In controtendenza a questo trend, per Castel Sallegg il “Bischofsleiten”, il nostro vino Schiava, continua a rimanere uno dei vini che meglio racconta questa terra. Bischofsleiten significa “le vigne del vescovo” in italiano, poiché questi terreni appartenevano mille anni fa ai vescovi di Trento. È un vino rosso leggero dai tannini morbidi con aromi di amarene e una punta di mandorla. D’estate viene servito anche fresco e accompagna perfettamente un tagliere di affettato, una pasta o una pizza. Il Bischofsleiten è un vino definibile easy, una di quelle bottiglie da aprire senza pensarci troppo, che ha fatto del suo carattere schietto e semplice il suo punto di forza.
Difficile immaginare quanto ci sia da scoprire in Alto Adige tra vini bianchi e rossi e con paesaggi e gastronomia impareggiabili.
Lasciatevi sorprendere.
Testo: Elena Francia
Foto: Adriano Mujelli