Mi sono laureata in Relazioni Internazionali, con una specializzazione in Missioni di Pace. E puntualmente, tornavano a raccontarci del Libano. Nel 1978, dopo la prima invasione israeliana, l’ONU inviò i caschi blu con un’operazione considerata un’operazione modello. E infatti, ci dicevano, trent’anni dopo è ancora lì. E pensavo: ma per i caschi blu, il successo non dovrebbe essere l’opposto? Andarsene, piuttosto? Non essere più necessari?
Sono ancora lì anche ora che gli anni sono diventati quaranta. E ho capito che, oltre che imparare, è fondamentale disimparare, anche se non è semplice, per me. Perché sono una corrispondente di guerra. Il mio è un mestiere in cui non si impara dai propri errori: perché se sbagli, o anche solo ti distrai un momento, finisci ucciso.
«Il mio è un mestiere in cui la prima regola, è seguire le regole. Sempre. Anche quando non le condividi: ma al fronte, il primo nemico è l’incertezza». Francesca Borri
Il mio è un mestiere in cui la prima regola, è seguire le regole. Sempre. Anche quando non le condividi: ma al fronte, il primo nemico è l’incertezza. Al fronte, ognuno ha un ruolo, e un ordine è un ordine, e non si discute. Se il logista ti dice di andare via subito, vai via subito, se ti dice di girare a sinistra giri a sinistra anche se a sinistra sparano e a destra no. Si decide prima chi decide. Dopo, si obbedisce e basta. Il mio è un mestiere di rigore fisico, un mestiere in cui per essere pronto a ogni clima, corri ogni giorno per dieci chilometri tutto coperto d’estate, e tutto scoperto d’inverno, e bevi poco, sempre, e ceni ancora meno, per abituarti alla fame e alla sete – ma soprattutto, è un mestiere di assoluto rigore psichico. Dentro la guerra: quando qualsiasi cosa ti stia davanti, qualsiasi ferocia, non devi tradire la minima emozione. Mai. Ma poi, fuori. Quando dopo tutto quello che ti è costato, i tuoi lettori confondono la Siria con l’Afghanistan. Saddam con Gheddafi.
E capisci che quello che scrivi non cambia niente, che è tutto inutile. Ed è il momento più difficile.
“Guarda i veterani. Fai uguale, e non fare domande”, mi fu detto il primo giorno. In Siria. E così ho fatto. Guardando i veterani andarsene, via via. Perché dopo i primi morti, la guerra non interessava più a nessuno. E guardando quelli rimasti venire sequestrati. Tutti. Ed è allora che mi sono ricordata del Libano. Quando mi sono ritrovata sola. L’ultima occidentale nella Aleppo dei jihadisti. E mi sono detta: ma perché seguire le regole di un giornalismo che, secondo tutti, è in crisi?
«Anche se mi infilavo sotto un niqab, in nero fino alle caviglie, senza neppure una penna con me, mi notavano sempre». Francesca Borri
Perché in realtà, il problema era la nostra scelta di fondo: mimetizzarci. E andare embedded con i più forti. Con quelli che in caso di imboscata sarebbero stati capaci di proteggerci. Ma i ribelli erano frantumati in più di mille milizie, e Dio solo sa quali fossero i più forti. E se esistessero. E comunque, passare inosservati era un’illusione. Anche se mi infilavo sotto un niqab, in nero fino alle caviglie, senza neppure una penna con me, mi notavano sempre. Perché ero l’unica senza fango addosso, o con le dita dallo smalto perfetto. O l’unica che ti guardava dritto – come nessuna araba fa. L’unica strategia possibile, era quella opposta: non nascondersi, ma integrarsi. Non avere paura non solo al fronte, ma intorno al fronte. In quella Siria che veniva definita “il paese del male”, in cui sembrava volessero tutti decapitarci e in cui invece, i siriani erano esattamente come noi: e non erano tutti uguali. L’unica, era affidarsi non ai combattenti, ma ai civili. A quelli che non volevano la guerra: e volevano che lo scrivessi.
A quelli che avevano bisogno di me. E non come ostaggio.
Se sono ancora qui è perché mi sono affidata a quelli da cui tutti gli altri si difendevano. Invece di cercare la sicurezza che viene dalle armi ho cercato la sicurezza che viene dalle relazioni. Non dalla paura, ma dalla fiducia. Sono stati i siriani a proteggermi. Le mille volte che quel niqab non è stato sufficiente, e un jihadista di pattuglia ha iniziato a fissarmi e in tanti mi si sono avvicinati, iniziando a parlarmi in arabo come se fossi una figlia, una cugina. Una di loro. In un certo senso, era vero, lo ero. Perché vivo con quelli di cui scrivo, tra le macerie di Aleppo come nei bassifondi di Caracas. Perché se non sei disposto a darti, perché gli altri dovrebbero darsi a te?
Che è un’altra regola cardine del giornalismo. E la più fraintesa. Il distacco. Perché la verità è che fa comodo. Consente di tirarsi indietro davanti alla Storia e pretendersi neutrali: anche se di fatto, essere neutrali significa schierarsi con i più forti. E invece, più si è dentro, più si è coinvolti e più si è liberi. Perché si ha il tempo per capire tutta la complessità di una guerra. E spazio abbastanza per raccontarla. Criticherai una volta gli uni, una volta gli altri. Spesso, entrambi. E sarai ogni volta criticato. Ma nessuno ti toccherà. Mai. Perché sarai percepito come uno onesto.
Uno che quello che dice, lo dice perché ci tiene. Come diceva Stanley Greene: Non è questione di essere invisibili, ma trasparenti.
Anche perché non sarebbe mai passato inosservato: era nero. Eppure, è stato uno dei migliori fotografi di guerra di sempre. Una sera, come dimenticarlo, l’ho trovato che discuteva di gay con al-Qaeda. Con i jihadisti, tutti ti consigliavano di dire che eri cristiano, e anzi, che stavi studiando l’Islam. Che stavi quasi per convertirti. Tutti ti consigliavano di fingere. Tutti tranne Stanley Greene. Che entrava ovunque, ovunque protetto, perché semplicemente stava alla pari. Non aveva mai personaggi, davanti, ma persone.
E stava tra i poveri. Sempre. Nelle aree più malfamate, come il Bronx da cui veniva. «Perché quelli veramente pericolosi non stanno qui», diceva. «Ma a Davos».
E diceva: «Prima di obbedire a una regola, chiediti: da chi è stata scritta?».
Testo: Francesca Borri Illustrazione: Alin Sandu