Raffaele Ferraro è l’autore del seguitissimo sito (e della relativa pagina Facebook) “La Giornata tipo” dedicata al mondo del basket. In questo editoriale ci ha raccontato uno spaccato di sport e vita caro ai cittadini bolognesi e non solo: il torneo dei Giardini Margherita.
1891, l’anno in cui Thomas Edison brevetta il cinetoscopio, il precursore del proiettore cinematografico. Una cassa dalle dimensioni rettangolari che, nella parte superiore, è dotato di un oculare. Se vi si guarda dentro e, contemporaneamente, si gira una manovella laterale è possibile azionare una pellicola da 35 millimetri, a una velocità di 48 immagini al secondo.
Mentre l’invenzione di Edison suscita stupore in tutto il mondo, in una piccola palestra l’istruttore di ginnastica dell’International Young Men’s Christian Association (YMCA) dello Springfield College (nel Massachusetts) riceve il compito di trovare un gioco con la palla per i suoi studenti, da fare al chiuso nel periodo invernale. L’intuizione è quella di tirare la palla dentro a dei cesti di frutta posizionati a circa 3 metri di altezza. 9 giocatori da una parte, 9 giocatori dall’altra. La prima partita finisce 1-0 con l’unico canestro realizzato dallo studente William Chase.
«Dovevo fare qualcosa. Un giorno ebbi un’idea» spiegò Naismith ad una stazione radiofonica di New York. «Dissi ai ragazzi di andare in palestra, li divisi in due squadre da nove e diedi loro un vecchio pallone. Avevo inchiodato due cestini per le pesche ai due lati della palestra. I ragazzi dovevano lanciare la palla nel cestino della squadra avversaria». Il gioco si chiamava “Basket Ball” (da “cesto” e “palla”) e i ragazzi ne andarono matti. Non facevano che chiedere a Naismith di giocarci, ma senza delle regole definite le partite finivano spesso in risse.
Nasce così la pallacanestro.
2018, Bologna, parco pubblico “Giardini Margherita”. I cesti di frutta sono diventati dei cerchi di ferro con delle retine bucate per permettere al pallone di cadere, si gioca 5 contro 5, ma all’aperto, e i giocatori segnano qualche canestro in più degli studenti del prof. Naismith.
Il basket è uno sport popolare nel mondo, ed anche in Italia, nonostante l’enorme popolarità del calcio, ha una grande storia ed un buon seguito. C’è però un luogo, una città, due torri, dove questo sport fa parte della cultura cittadina, dove gli anziani al bar litigano parlando di esso, dove i genitori hanno sempre una palestra vicino a casa dove portare i propri figli a praticarlo, e quando nasci, il tuo primo vagito è semplicemente il grido col quale esprimi al mondo la scelta di tifare per la Virtus o la Fortitudo.
«C’è però un luogo, una città, due torri, dove questo sport fa parte della cultura cittadina, dove gli anziani al bar litigano parlando di esso». Raffaele Ferraro
Bologna.
Basket-city vive la pallacanestro in maniera viscerale, ed esprime la propria passione non solo attraverso la storia delle due principali squadre della città, ma anche, e soprattutto, attraverso l’abnorme numero di praticanti e di squadre che partecipano a campionati e tornei. Attraverso il numero, superiore alla media, di campetti all’aperto in cui tutti possono giocare.
Il campetto è il luogo più democratico per antonomasia. Chiunque può giocarci. Non c’è la selezione all’ingresso. Alto, basso, magro, grasso, giovane, vecchio, bambino, bravo, scarsissimo. Chiunque, in qualsiasi momento, può prendere una palla e giocare a basket.
E Dio solo sa di quanti altri campetti ci sarebbe bisogno in Italia, non solo per la valenza sociale, ma anche come forma efficacissima di marketing per attirare nuovi appassionati.
Io abitavo in aperta periferia, ai piedi dei colli, lontano dalle strade più trafficate, come via Saragozza. A meno di 500 metri da casa mia c’erano due palestre e un campetto. A 5 anni, all’uscita dall’asilo, mia madre mi portò nella palestra della chiesa accanto alla scuola. Quel giorno c’era la prova gratuita di pattinaggio e basket. La prima ora mi infilarono dei pattini e fui lanciato contro al mio destino: un muro. Quella caduta mi rimase in testa. Nel senso che avevo un bernoccolo enorme sulla fronte.
L’ora di basket andò meglio, e le mie uniche parole al termine di quel pomeriggio furono: “Mamma, voglio fare basket”.
«A Bologna c’è un campetto che ha fatto, e continua a fare, storia. Si chiama come il parco in cui si trova, “Giardini Margherita”, ed il torneo che prende il suo nome esiste da 37 anni». Raffaele Ferraro
A Bologna c’è un campetto che ha fatto e continua a fare storia. Si chiama come il parco in cui si trova, “Giardini Margherita”, ed il torneo che prende il suo nome esiste da 37 anni.
Qualche numero: quasi 1000 partite giocate, 2100 giocatori di cui 60 di Serie A e 250 di A2, 20 atleti con almeno 1 presenza in Nazionale, 3 giocatori NBA, 3 giocatrici di Serie A, 1 partita sospesa per intemperanze del pubblico, più di 1000 spettatori di media a partita, circa 2500 spettatori di media nelle finali.
Numeri che reggono il confronto di società professionistiche di Serie A, registrati da un torneo all’aperto giocato sul cemento, con gli spettatori (più fortunati) seduti sui gradoni, sul prato e anche sulle tribune, organizzato solamente da due persone coi capelli bianchi (quando presenti) che rispondono al nome di Simone Motola e Walter Bussolari.
Il campo, gli alberi attorno, gli improperi per cercare parcheggio dentro ai Giardini, e le due facciotte di Simone e Walter, rappresentano i dettagli che ti fanno sentire a casa ogni volta che entri lì dentro.
La mia prima volta al torneo fu ad inizio anni ’90, forse avevo 9 anni, l’età dell’innocenza e del portafoglio vuoto. Ricordo poco di quella sera, ma proverò comunque ad aprire la cataratta dei ricordi. Io e mio padre eravamo seduti sul prato, stretti come sardine, nell’aria si respirava un mix di profumo d’erba (anche del prato) e luppolo delle Moretti, in campo c’era parecchia tensione e volavano parole grosse che con mio padre fingevo di non aver mai sentito. Le cose che mi rimasero impresse furono tre: la quantità di gente manco giocassero Virtus o Fortitudo, le facce di Motola e Bussolari identiche ad oggi, le hostess della squadra Jeans Hatù che lanciavano manciate di preservativi al pubblico durante i time out. Preservativi che, ancora una volta, fingevo di non aver mai sentito nominare. Mio padre, però, se li infilava in tasca.
La gente.
La gente è in assoluto la cosa che rimane più impressa a chi vede per la prima volta una partita ai Giardini Margherita. Ai tornei estivi, di norma, tolte le fidanzate, gli amici, i cugini, i partecipanti e gli organizzatori, restano solo le zanzare. Qui parliamo di 2000 persone che vanno a vedere 10 scalmanati che giocano a basket sul cemento. È un concetto quasi utopistico. Un miracolo che si ripete da 37 anni, ma a differenza di quello di San Gennaro, quando appare il sangue non ci sono applausi ma solo le grida di chi si è fatto male.
Il Torneo Giardini Margherita (spesso americanizzato in “Gardens”) è il torneo estivo più importante d’Italia. Si gioca 5 contro 5, la linea dei tre punti è a 7,25 metri come in NBA, e le squadre partecipanti, mediamente, sono 16. Quest’ultime hanno le loro maglie da gioco personalizzate con tanto di sponsor, tuta, ogni tanto anche merchandising, claque al seguito, fotografi, e passano i restanti undici mesi a fare mercato per accaparrarsi i migliori giocatori, e allenatori, tra la Serie A e il CSI.
Un’edizione del torneo mi vide in campo. Era una squadra di giocatori del livello massimo di C2, quindi scarsi per il torneo, e aveva due peculiarità. La prima era “Piede” Marino, un buttafuori che non sfigurerebbe nel Wrestling, bravo a giocare ma soprattutto immarcabile per la paura che incute ai difensori. La seconda era il nome della squadra: “Piccole Trasgressioni”. Un nome che fa pensare sia ad un telefilm americano per ragazze teenagers, sia a qualcosa di un pochino più spinto. Ecco, noi eravamo qualcosa di ancora più spinto. Piccole Trasgressioni, lo sponsor, non era altro che un sito (legale) di annunci particolari in cui donne (e non solo) offrivano massaggi. Sì insomma, uno sponsor molto particolare che dovetti spiegare a mio padre rimasto stranito sugli spalti.
Ma torniamo alle cose serie. Il torneo rappresenta un evento che travalica i confini del basket. Ne parlano i quotidiani, ne parlano i telegionali locali, ne parlano i siti internet e a vederlo accorrono tanti personaggi noti. I compianti Marco Pantani e Lucio Dalla, i calciatori Roberto Baggio, Gianluca Pagliuca, Manolo Gabbiadini, Rodrigo Palacio e poi Cesare Cremonini, Gianni Morandi, Alba Parietti, Alberto Tomba, vari sindaci, i giocatori, gli allenatori e i presidenti di Virtus e Fortitudo, i giocatori della Nazionale di basket, ma soprattutto il popolo. Il basket, sport popolare, diventa ancor più popolare ai Giardini Margherita.
Papà, figli, nonni, mamme, ragazzi di tutte le età, adulti che prima erano giovani, ragazzi che giocano a basket, ragazzi che giocano a calcio o a pallavolo, “andare ai Giardini” fa ormai parte del lessico locale. «Oh regaz, stasera che si fa? Andiamo ai Giardini?» è una frase che da metà giugno a metà luglio scorre sotto i portici della città.
Ai Giardini vincere non è un’ossessione e nemmeno l’unica cosa che conta. Provare a vincere è un piccolo dovere morale che qualsiasi giocatore sente per rispetto nei confronti del luogo in cui sta giocando. Ai Giardini non esistono star. Sono passati giocatori che la NBA l’hanno giocata, come Michael “Sugar” Ray Richardson, ed è vero che il giocatore professionista di Serie A suscita più interesse del ragazzino che si sta facendo le ossa in D, ma ai Giardini l’unica vera star è il torneo. E anche i giocatori di livello più alto lo sanno e lo riconoscono. Il pubblico applaude una bella giocata indipendentemente dalla categoria del giocatore.
«Ai Giardini vincere non è un’ossessione e nemmeno l’unica cosa che conta. Provare a vincere è un piccolo dovere morale». Raffaele Ferraro
I Giardini Margherita sono un sogno, l’idea di un torneo che sa rinnovarsi senza mai perdere contatto con la propria storia. Sono la testimonianza della straordinarietà dello sport. Perché, in fin dei conti, stiamo solo parlando di due canestri e di un rettangolo di cemento che da 37 anni sono un modello sportivo, sociale e culturale che ha impreziosito il tempo di almeno due generazioni di persone.
Scusate se è poco.
Un giorno, un mio amico di Roma, mi chiese: «Aò, ma che è sto “Giardini Margherita?”».
Penso sia una di quelle domande alle quali non sei mai pronto a rispondere. Un po’ come quando ti chiedono «cos’è l’amore?» oppure «perché esiste il possesso alternato nel basket?». Ricordo di aver preso tempo, non volevo sprecare la risposta. Ho riflettuto un attimo, ho spremuto le meningi come due arance di Sicilia, e alla fine gli ho risposto così: «È qualcosa di talmente bello che devi vederlo coi tuoi occhi per crederci».
Qualche mese dopo salì a Bologna per vedere la finale del torneo.
L’anno dopo, la mattina della finale, mi mandò un sms: «Andiamo ai Giardini?».
Editoriale: Raffaele Ferraro Shooting fotografico: Martina Padovan