19 album, 188 canzoni pubblicate, oltre 1500 concerti, 1 libro e 3 vite, questi sono i numeri ad oggi di Omar Pedrini, un artista che non ha bisogno di grandi presentazioni, un musicista con una carriera di oltre trent’anni alle spalle che è stato un pioniere con i suoi Timoria del rock italiano. Una vita intensa la sua, tanto complicata quanto semplice. Una vita fatta di eccessi, stereotipi da rocker ma soprattutto di un grande, passionale e viscerale amore per la Musica, quella con la emme maiuscola, che scandisce i battiti del cuore di un uomo, che non nasconde le sue fragilità e che forse proprio per questa umana autenticità diffonde attorno a sé una luce speciale.
Ciao Omar e grazie per averci aperto le porte di casa tua. La tua carriera musicale inizia a Brescia intorno agli anni ’80 con i Precious Time che in seguito sono diventati i Timoria e con un genere, il rock, che per il panorama musicale italiano di quegli anni era abbastanza inconsueto. Quale è stata l’eco che ha avuto il vostro successo a Brescia?
«Brescia è la città dove sono nato e dove è cominciata la mia avventura con la musica. È una bella città che, tuttavia, non hai mai tirato fuori il suo lato artistico più profondo e prezioso. È una città che non rischia esperienze culturali di tendenza, ma preferisce situazioni più rassicuranti adatte alle famiglie.
«A scuola eravamo considerati gli scemi del villaggio, quelli che siccome suonano perdono del tempo prezioso». Omar Pedrini
Ho frequentato il liceo classico di piazzale Arnaldo ed è lì, tra quei banchi e quelle mura che assieme a Francesco Renga, Diego Galeri, Enrico Ghedi e Carlo Alberto Pellegrini abbiamo dato vita prima ai Precious Time e in seguito ai Timoria. A scuola eravamo considerati gli scemi del villaggio, quelli che siccome suonano perdono del tempo prezioso. Il futuro, che a detta di molti dei nostri concittadini ci si prospettava, era un futuro da disoccupati!
Fortunatamente i Timoria si sono rivelati una scommessa vincente e le persone che negli anni ’80 ci davano per spacciati poi erano le stesse che elemosinavano gli ingressi ai concerti nei palazzetti dieci anni dopo. Il nome Timoria deriva dal greco, ai tempi si usava avere un nome un po’ “neoclassico” e nasce proprio da questa voglia di riscatto, Timoria può significare punizione, ma anche vendetta».
Dopo quasi vent’anni di Timoria, nel 2003 decidi di intraprendere la carriera da solista. Tuttavia, proprio in quegli anni sei stato costretto a fermarti per un lungo periodo di tempo per motivi di salute: cosa è successo?
«La prima volta che mi sono esibito da solista è stato sul palco del Festival di Sanremo nel 2004 con Lavoro Inutile. Ero molto teso, vivevo un disagio interiore dovuto a vicende personali, ma ho indossato il mio sorriso e mi sono esibito. Sorridevo anche se la mia vita privata stava andando allo sfascio, sono fatto così. Non sapevo come avrebbe reagito il pubblico dei Timoria a quella novità, ma per me era il momento della svolta, come lo è stato ad un certo punto anche per grandi musicisti come Paul Weller, icona della musica inglese, e Ivano Fossati che dopo l’esperienza con una band hanno proseguito la loro carriera come solisti. Sono andato a Sanremo proprio per dare un’idea nuova di me, svincolata dai Timoria, volevo che il pubblico si rendesse conto che c’era un nuovo artista, e con immensa gioia ho vinto il premio come miglior testo. Proprio però nel momento in cui stavo rinascendo artisticamente stavo morendo fisicamente. Ho dovuto interrompere il tour perché sono stato operato d’urgenza per un aneurisma aortico».
Immagino che la malattia abbia dovuto importi dei cambiamenti, soprattutto per quanto riguarda lo stile di vita. Pensi che nonostante tutto la vita ti abbia sorriso?
«Mi ritengo una persona molto fortunata e sono convinto che la vita mi abbia sorriso, principalmente perché sono vivo. Sino ad oggi ho dovuto affrontare tre interventi al cuore, due dei quali molto complicati. Accettare la malattia ha comportato anche accogliere un grande cambiamento. Sono una persona che difficilmente si pone dei limiti, non sono mai riuscito a fermarmi, anche negli eccessi, alcool o droga che fossero.
La malattia mi ha imposto della catene, dopo gli interventi ho dovuto per forza di cose rivedere il mio stile di vita, prima ho smesso di fare uso di droghe e poi ho chiuso anche con l’alcol. Ma niente accade per caso».
Immagino che rialzarsi in piedi dopo un’esperienza del genere e riprendere possesso della propria vita non sia stato facile.
«Non lo è stato per niente. Dopo l’intervento non ho fatto più uso di droghe ma ho iniziato a bere. Nonostante bevessi molto continuavo a lavorare: sono bresciano fino all’osso e il lavoro è sacro nella mia famiglia. Mio padre non poteva sopportare di non vedermi lavorare e non mi ha mollato un attimo. La mattina mi svegliava e mi buttava sotto la doccia, a volte anche vestito. In quegli anni mi sono dovuto inventare altri mestieri e attingere anche a forze che mai avrei pensato di avere».
Chi ti segue e ti conosce sa che sei un uomo e un artista dalle mille risorse, che bene o male ha sempre trovato il modo di rialzasi da vero guerriero. Nelle lunga pausa che hai dovuto affrontare a cosa ti sei dedicato?
«Durante gli otto anni in cui sono stato lontano dalla scena musicale e non ho prodotto dischi ho dovuto fare i conti con la grande delusione di un mondo spietato come quello dello spettacolo. Tutte le persone che avevo arricchito durante gli anni ’90, quelle che mi lusingavano e mi portavano alle stelle, sono state le stesse che mi hanno completamente ignorato in quel periodo di grande difficoltà lasciandomi da solo. Fortunatamente ho tanti interessi e spirito di iniziativa e ho trasformato le mie passioni in lavoro.
Ho iniziato a scrivere di vino con Veronelli, con il quale è nata una grande amicizia. Ho cominciato a girare per cantine e a rappresentare i vini della Franciacorta. Ho scritto diversi programmi sia per la radio che per la televisione. Mi sono anche tolto la soddisfazione di condurre dei programmi come Nu-Roads e School of Rock in onda su RAI2 . Ho partecipato alla nascita di RAI5 e nel 2011 grazie al programma Contromano in onda su Rai Isoradio ho conquistato le cuffie d’oro per il miglior esordio.
Questo è un chiaro esempio di come le difficoltà possano diventare opportunità. Mi sono trovato a fare queste cose in un momento critico della mia vita in cui non riuscivo a fare il musicista e ho scoperto nuove strade e possibilità. Queste esperienze meravigliose sono nate dal fatto che nessuno credesse più in me come musicista e mi proponesse di fare dischi. Ora ci sono tanti colleghi musicisti che fanno i conduttori, ma quando mi sono trovato a farlo io, ero uno dei pochi se non l’unico. Sono sempre stato quello che butta giù i muri, che spiana la strada».
Un’altra grande risorsa immagino sia stata l’insegnamento visto che sei docente di “Laboratorio di composizione e realizzazione di una canzone pop” presso il Master in Comunicazione Musicale per la Discografia e i Media dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
«Sono ben quattordici anni che collaboro con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È un grande impegno per me in quanto non ho a che fare con dei ragazzini, ma con dei neolaureati che hanno tutto l’interesse di imparare, sono attenti e fanno domande e io non posso farmi trovare impreparato, devo studiare e documentarmi continuamente. Insegno tutti i mercoledì, di conseguenza il martedì devo stare chiuso in casa a studiare. I primi tempi imprecavo prima di andare in università, era un impegno che mi costringeva a essere sempre lucido. Dovevo essere presente a me stesso e responsabile, lo facevo in un certo senso contro la mia volontà. Ma ho continuato a farlo con costanza negli anni perché è stato un angolo di palestra per la mia mente. Dato che non ho avuto sempre cura del mio cervello ora cerco di coccolarlo con lo studio. L’insegnamento è un dono che faccio ai miei studenti, ma soprattutto a me stesso. Insegnare mi serve, imparo tanto dai ragazzi, è un confronto continuo su musica e nuove tendenze».
A proposito di musica, un’altra nota positiva della tua vita attuale è sicuramente tua moglie: dove vi siete incontrati?
Ho conosciuto Veronica in montagna a una mostra di pittura. Il pittore, Renato Missaglia, aveva creato dei quadri ispirati a una mia canzone dal titolo La follia. L’ho notata subito, in mezzo a tutta la gente, sono rimasto folgorato dalla sua bellezza e ho chiesto a un amico di presentarmela. Abbiamo passato la sera a chiacchierare, io credevo che sapesse chi fossi invece non aveva mai sentito parlare di me. Non so se lo sai, ma il mio è chiaramente un matrimonio di interesse, il padre di Veronica è un cardiochirurgo, durante la nostra prima chiacchierata casualmente mi ha detto quale fosse il mestiere di suo padre io le ho risposto:”Tu non lo sai ma sei la donna della mia vita e siccome sono malato di cuore il nostro sarà un matrimonio di interesse!”.
Da lì ho vissuto un grande momento di serenità e felicità finché il cuore non ha iniziato di nuovo a fare i capricci e la terra a tremare sotto i piedi».
Quando ti sei reso conto che il tuo cuore avrebbe potuto tirarti di nuovo un brutto scherzo, cosa ti ha spaventato di più?
«Il terrore più grande era quello di lasciare Veronica, che allora non era ancora mia moglie, e nostra figlia di due anni piene di debiti e senza una casa. C’è stato un momento in cui mi sono molto arrabbiato con Dio, ero in pessime condizioni economiche con una compagna incinta molto più giovane di me e con una vita che mi stava scivolando tra le mani. Sentivo di dover mettere tutto in ordine nell’eventualità che non avessi potuto avere un’altra chance. Quindi ho venduto il pianoforte per offrire la cena agli amici più intimi, ho chiamato mio figlio Pablo per farmi da testimone e ho sposato Veronica nel municipio a Brescia. Veronica non mi ha lasciato mai da solo, mi ha sempre compreso profondamente.
La musica è l’amore più grande della mia vita, è la mia sposa da sempre; l’idea di non poter più fare il mio mestiere è devastante. La mia vita artistica vale più della mia vita fisica. Mia moglie ha il grandissimo merito di averlo intuito da subito, è così che è nata la nostra grande complicità, il nostro rock’n roll. Dopo il primo intervento nel 2004 mi sono ritirato dalle scene per moltissimo tempo, un tempo infinito per me, e finalmente, dopo otto anni sono uscito con un nuovo disco, Che ci vado a fare a Londra, che si è rivelato un successo radiofonico: immagina la gioia, per nulla al mondo avrei rinunciato ad una tournée.
Purtroppo però,, le mie condizioni fisiche si sono nuovamente aggravate e sebbene il padre di Veronica mi intimasse di fermarmi e di operarmi, ho continuato a fare concerti. Mia moglie ha rischiato con me, non volevo lasciare mia figlia senza una casa, ho fatto 48 date, ho ripagato i debiti che avevo, ma soprattutto ho ritrovato un pubblico e una nuova vita. Purtroppo durante l’ultima data del tour a Roma mi sono sentito male, il mio fisico ha ceduto di nuovo e mi hanno operato d’urgenza a Bologna. Ma sono vivo e la vita è un regalo che ho ricevuto da Dio. Nicolai Lilin dice riferendosi a me: “Se è ancora qui è perché Dio ha un piano per lui, vuole fargli fare qualcosa di straordinario”».
Oltre a Emma Daria hai anche un altro figlio, Pablo. Che padre sei o vorresti essere per i tuoi figli?
«Quando vivi delle situazioni di grande sofferenza e di malattia, cominci a guardarti indietro e inconsciamente cerchi di rimediare agli errori fatti e a non commetterne altri. Io ho capito di non avere più un minuto da perdere. Ogni giorno è prezioso e non voglio perdermi nulla, voglio godere delle piccole cose, della possibilità di andare a prendere mia figlia Emma Daria all’asilo, di vederla crescere e cambiare. Purtroppo con mio figlio Pablo mi sono perso questi momenti. Avevo 24 anni quando sono diventato padre la prima volta.
In quegli anni ero preso dall’incredibile avventura che stavo vivendo con i Timoria: dischi d’oro, 180 concerti all’anno, viaggi e tanto altro. Tutto questo ha significato avere pochissimo tempo per mio figlio. Allora non ero fisicamente molto presente, ma ho sempre cercato di non fargli mancare nulla, di intervenire nei momenti importanti della sua vita e di dialogare il più possibile con lui».
Tu sei geneticamente” un musicista, e nella tua famiglia, soprattutto dalla parte di tua madre, hai sempre respirato musica: se i tuoi figli desiderassero di intraprendere un giorno la carriera da musicista ne saresti felice?
«La musica ce l’ho nel sangue: in famiglia da parte di mia mamma, il ramo veronese, siamo tutti musicisti. Il mio bisnonno era un liutaio di Verona, costruiva mandolini e nello stesso tempo insegnava clarinetto; sua figlia, mia nonna Nina a cui è dedicata la canzone Nina, era una ribelle. Durante il fascismo non era vista di buon occhio, portava da mangiare ai partigiani e suonava la chitarra. Immagina una donna che negli anni ’40 sul Lago di Garda suona la chitarra, era considerata la matta del paese. Sua figlia, mia mam’a, cantava per hobby. E poi c’è mio zio Guido, cantautore gardesano e operaio dell’Enel. Il mio zio rock! Quello zio che ti passa i dischi giusti e ti consiglia la musica da ascoltare, ce lo abbiamo un po’ tutti da ragazzini.
È esattamente come mi vedo io per molti dei miei fan: lo zio rock!
Vorrei che la musica facesse parte della vita dei miei figli come lo è stato e lo è della mia, vorrei che respirassero musica. Un giorno donerò loro la chitarra che mia nonna mi diede quando avevo cinque anni dicendomi: ”Ricordati che con la musica non sarai mai solo”. Spero che sia Pablo che Emma Daria abbiamo un rapporto intimo con la musica, per il loro bene, perché la musica è una ricchezza enorme, tuttavia se decidessero di intraprendere la carriera da musicisti non ne sarei felice, perché l’ambiente dello spettacolo è un mondo crudele, ma non posso evitarlo. Pablo ha un grande talento da autore e più volte l’ho incoraggiato a scrivere qualcosa, potrebbe essere un eccellente autore di testi al pari di Mogol o scrivere dei libri. Mi risponde sempre che ci penserà. Occorre essere pronti per aprire la propria intimità agli altri, è il prezzo che devi pagare se vuoi essere un autore, un conduttore o uno scrittore: la più profonda condivisione di te stesso. Emma Daria, invece, ha una grande attitudine per la musica. Potrebbe aver ereditato la condanna che abbiamo tutti noi: l’abilità per la musica che poi sfocia in una folle passione».
«Sono convinto che il rock non morirà mai e si riprenderà anche da questo momento». Omar Pedrini
Collegandosi al tuo sito la prima cosa che compare è la scritta: Rock ‘n’ roll will never die. Tu sei stato uno dei capostipiti del rock italiano insieme ai Diaframma e ai Litfiba: cosa ne pensi del rock di oggi, credi esista ancora?
«Stiamo attraversando un momento molto particolare in Italia, anche musicalmente parlando, perché tutto quello che una volta era considerato indipendente, il cosiddetto indie, ora è diventato mainstream. È la musica che ascoltano tutti. Il rock continua a esserci, non è morto, al contrario sta vivendo una sua seconda vita. Dagli anni ’70 ciclicamente ogni dieci anni va di moda dire “the rock is dead”. È diventato una sorta di slogan. Negli anni ’70 si diceva che sarebbe stato ucciso dalla disco music, quindi Rock n’Roll will never die è diventato un po’ il mio inno. Generalmente suono questa canzone ai miei concerti, per il mio pubblico, proprio perché il rock sta vivendo questo momento e chi lo ama sa che il rock resiste.
Siamo in un momento drammatico in cui stanno fallendo sia la Gibson che la Fender, i ragazzini non chiedono più la chitarra elettrica come regalo, probabilmente chiedono un dj set, un computer nuovo e questo è indice dei nostri tempi. Tuttavia il rock ha ancora il suo pubblico, è semplicemente diventato l’indie dei giorni nostri. Sono convinto che il rock non morirà mai e si riprenderà anche da questo momento».
Nel tuo ultimo lavoro discografico ‘Come se non ci fosse un domani’ vanti collaborazioni illustri a partire da Noel Gallagher sino a terminare con Ian Anderson dei Jethro Tull. Come vi siete conosciuti e avete deciso di collaborare?
«Gli incontri sono stati del tutto casuali e non programmati. Noel, per esempio, l’ho conosciuto a Londra in un after show,:di quella occasione, però, non mi è rimasto impresso l’incontro con Noel quanto quello con uno dei miei miti, Paul Weller, anche se l’incontro è stato a dir poco bizzarro e inconsueto. Ero seduto in platea e accanto avevo Beckam e gli Sterophonics, poi lo vedo. Lo avevo accanto, dovevo dirgli qualcosa, ma la cosa più intelligente che mi è venuta in mente in quel momento è stata “sai dove si trova la toilette?”. Lui mi guarda e mi dice di seguirlo. Così mi sono ritrovato a fare la pipì con uno dei miei miti!
Quando ho incontrato Ian Anderson per la prima volta, se non mi avessero detto che era lui non l’avrei mai riconosciuto. Ero a Londra in una delle solite situazioni in cui ci sono talmente tanti personaggi famosi che fai fatica a capire chi siano e Ian Anderson è una persona comunissima, ora non ha più i capelli di una volta, è un signore di 70 anni. Aveva le scarpe da tennis, un giubbotto da cacciatore e una bandana in testa. A un certo punto un ragazzo che chiacchierava con lui mi guarda, mi riconosce e mi dice che era italiano e che conosceva i Timoria. Il ragazzo in questione si chiama Emanuele Giovagnoli ed è tutt’ora il tecnico del suono di Ian Anderson. Allora ho colto la palla al balzo e gli ho chiesto di presentarmelo. Da allora mi ha sempre invitato ai concerti dei Jethro Tull e così ho iniziato a seguirli. Un giorno in camerino ci ho provato e ho chiesto a Ian di fare parte dell’album: lui ha accettato senza chiedere nulla come compenso».
Hai conosciuto tantissimi artisti e fatto più di 1400 concerti in oltre vent’anni di onorata carriera: qual è stato il concerto più trasgressivo che credi di aver fatto?
«È stato lo scorso anno, quando ho cantato a Monza su un palco lungo 150 metri. In quell’occasione però la più grande rockstar non era un noto musicista, ma era il Papa. Mi hanno chiesto di suonare mentre la gente attendeva l’arrivo di Papa Francesco e io ho accettato. Solo voce e chitarra senza band, davanti a un milione di persone provenienti da tutto il mondo. Ho suonato due brani, Knockin’ on Heaven’s Door, che mi sembrava alquanto appropriata e Sole spento, che ho scritto diversi anni fa per i Timoria e che è tratta dalla lettera di un carcerato. E chi se lo immaginava? Essere lì con la mia chitarra davanti a un milione di persone, in apertura a Papa Francesco è stato senza dubbio il più grande raduno rock della mia vita nonché il concerto più trasgressivo».
Milano è protagonista di tante delle tue canzoni. Cosa ne pensi di questa città?
«Vivo a Milano ormai da vent’anni tanto che ormai mi sento milanese. Ho parlato tante volte di Milano e delle sue mille sfaccettature nelle mie canzoni. Sono nato in una forte e piccola città, ma Milano mi ha adottato con le sue mille luci che per me da giovane erano al pari di quelle di New York.
Ho visto questa città rinnovarsi, cambiare ed evolvere in un tempo brevissimo e questa evoluzione è violenta e richiede che tu ti mantenga sempre al passo per non restare indietro. Adesso vivo in una Milano di cui sono parte attiva, ma mi sono reso conto che la guarderò sempre dalle scale della Stazione Centrale, come quando arrivai la prima volta 18 anni fa».
Le donne sono una costante della tua vita, nel bene e nel male. Quali sono le figure di donne a cui ti senti più legato?
«Crescere circondato da donne mi ha fatto sviluppare una sorta di sensibilità femminile della quale vado molto fiero. Nella mia vita, in particolare, ci sono state due figure di donne a cui sono molto grato: mia madre e mia nonna Nina. Mia madre era una donna eccezionale. Ha iniziato a lavorare a dieci anni in un cotonificio, oggi si tratterebbe di sfruttamento minorile bello e buono, ma a quei tempi era la normalità. Non era una donna istruita, ha fatto sempre lavori molto umili ma era una donna di una tenacia e una forza d’animo immense. Poi quando io e mia sorella siamo cresciuti si è iscritta alle scuole medie. Mi ricordo che tornavo a casa e la trovavo che studiava con tanta tenecia, per lei prendere la terza media aveva lo stesso significato di vincere un Oscar. Era una grandissima amante della musica, una sorta di hippie. Mi portava a tutti i concerti: Guccini, Bertoli, De Andrè li ho visti tutti in braccio a mia madre. Nonna Nina era la madre di mia madre, sicuramente la figura più forte di tutta la nostra famiglia. Aveva una marcia in più e mi ripeteva sempre che anche io, Gemelli come lei, avevo qualcosa in più. Quando con i Timoria abbiamo partecipato la prima volta a Sanremo era orgogliosissima: nel cassetto del suo comodino ho trovato un mio 45 giri e delle nostre foto proprio di quell’edizione. Lì ho davvero capito che l’avevo resa orgogliosa per aver scelto di intraprendere la carriera del musicista».
Cosa pensi dell’amore?
«Io credo nell’amore puro e sincero. Non credo nell’amore che si misura con gli anelli e con gli altari, credo in quel grido che nasce dalle montagne che ripeti ed arriva fino alle foreste. Majakovskij dice: “Amare significa uscire a petto nudo in cortile e tagliare la legna”. Il segreto dell’amore è supportare l’altro, capirlo, aiutarlo quando è ammalato pulirgli il culo. L’amore non è quella immagine romantica, l’amore vero è quello di ogni giorno, è condividere la vita di tutti i giorni quella che a volte puzza, ci vuole tanta pazienza significa essere davvero parte dell’altro. È un lavoro l’amore. Se cerchi sempre l’emozione del primo momento l’amore finisce, forse la chiave per trovare una storia definitiva è comprendere semplicemente che l’amore è una continua trasformazione. Ho avuto tante donne, ma ne ho amate poche. Non sono uno da storie brevi, mi piace la profondità dei sentimenti. Le coppie che si amano davvero, quelle che resistono a sessant’anni di vita insieme, sono quella che io considero la trasgressione più vera, più della droga e del sesso in camerino».
Mi piacerebbe che mi consigliassi un vino, un libro e un disco.
«Sul disco non ho dubbi, “White album” dei Beatles. In realtà avrei voluto consigliarti qualcosa dei Pink Floyd, visto che ho tutta la collezione in vinile, ma i Pink sono più settoriali dei Beatles, devi amarli incondizionatamente. I Beatles sono grandiosi, hanno condiviso un’alchimia pazzesca. In sette anni insieme hanno prodotto una quantità di musica bella allucinante. Perché nascano nuove band del genere ci vorranno cento anni.
Per quanto riguarda il vino mi piacerebbe consigliarti un vino in base a quello che abbiamo condiviso oggi. Parlando della mia famiglia un po’ è come se avessimo parlato di Veneto, della Valpolicella e del Lago di Garda, quindi ti direi un Amarone, anche se è un vino per chi già ne capisce. A un neofita consiglierei una bollicina della Franciacorta.
Come libro oggi consiglierei un libro a scelta di Bauman, in particolare ai giovani. I ragazzi di oggi hanno un grande bisogno di guide e di poesia. Le nuove generazioni hanno un mondo veramente difficile da interpretare con tanti problemi in più della mia generazione, che era già la generazione senza vento rispetto a quella dei nostri padri. I nostri figli, secondo me, hanno ancora più difficoltà di noi: non hanno un lavoro, non hanno una chiara direzione, spesso non hanno ideali, quindi c’è bisogno di una guida per questa società liquida che possa aprire l’anima dei ragazzi».
Articolo: Maria Pia Catalani Shooting: Barbara Rigon