“Preoccupati più della tua coscienza che della reputazione. Perché la tua coscienza è quello che tu sei, la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te. E quello che gli altri pensano di te è problema loro”. Se Sir Charles Spencer Chaplin, più noto semplicemente come Charlie Chaplin, fosse ancora tra noi e stesse vivendo l’epopea odierna dei social media, probabilmente si troverebbe costretto a rivedere la propria convinzione.
Perché in un’epoca in cui il flusso di informazioni viaggia a velocità impensabili fino ad un decennio fa, la difesa della nostra reputazione diventa elemento imprescindibile per la nostra immagine che si riflette in rete. E il problema si presenta più complesso di quanto Chaplin potesse immaginare allora.
Sonia Milan ha fatto della difesa della web reputation (e non solo) il suo mestiere con il marchio Opinity ed è autrice diversi progetti editoriali tra i quali Hotel per Adulti. Monzese di nascita, milanese per studi e per alcune occupazioni lavorative, ha sempre avuto la straordinaria capacità di modellare la sua professionalità e le sue competenze alla luce degli avvenimenti e delle innovazioni, fossero queste riorganizzazioni aziendali o l’avvento di nuovi canali di comunicazione social. Il tutto accompagnato da una risata contagiosa e da una enorme e sana dose di ironia nell’affrontare le sfide lavorative, qualunque esse siano: dal panettiere sotto casa fino alla multinazionale con necessità impellenti di rivedere il proprio look su Facebook.
Sonia, il tuo background lavorativo è particolarmente curioso e accattivante. Per mettere un po’ d’ordine, possiamo iniziare con qualche dato biografico?
Sono nata a Monza, ma sono veronese da sempre. Nel 2000 decisi che il cambio di secolo meritasse anche un cambio di vita e accettai un’offerta da Canon Italia, a Milano. L’idea era di rimanere sotto l’ombra della Madonnina per un anno, ma finii per restare in terra lombarda per otto anni. Poi, l’arrivo della crisi nel 2008/2009 costrinse molte persone a rivedere i propri piani lavorativi: riorganizzazioni aziendali, interi dipartimenti chiusi e trasferiti altrove, prepensionamenti. Ne approfittai per ritornare a Verona, con il mio bagaglio di esperienze e la capacità di parcheggiare la mia Polo dove normalmente sarebbe entrata una Smart. Milano è stata altamente formativa su questo tema.
«Poi, l’arrivo della crisi costrinse molte persone a rivedere i propri piani lavorativi: riorganizzazioni aziendali, interi dipartimenti chiusi e trasferiti altrove, prepensionamenti. Ne approfittai per ritornare a Verona, con il mio bagaglio di esperienze e la capacità di parcheggiare la mia Polo dove normalmente sarebbe entrata una Smart. Milano è stata altamente formativa su questo tema».
Se mi permetti la citazione di una tua breve biografia trovata in rete, alla domanda “che lavoro fai?” hai risposto “non ne sono sicura”. Ad oggi non hai ancora raggiunto la certezza del tuo ruolo?
Il problema permane: e non è solo mio, ma di tutti quelli che lavorano nel digitale. Mi piace definirmi “consulente di comunicazione digitale” perché è un’espressione che racchiude bene la vastità di competenze necessarie per fare il mio lavoro. Ma si tratta comunque di attività legate a strumenti nuovi, a cui non siamo mai stati abituati. Mi capita spesso di intravvedere dello smarrimento negli occhi di manager e dirigenti d’azienda che, pur con molta esperienza, hanno poche e sommarie competenze nell’ambito della comunicazione applicata agli strumenti digitali, e questo mi dà il metro di come ancora questa attività non sia entrata nell’immaginario collettivo. Nella migliore delle ipotesi, la nostra categoria viene vista come una semplice appendice del marketing; nella peggiore, veniamo additati come venditori di fuffa digitale: è difficile, per il cliente, percepire l’effettivo valore del servizio che offriamo; molti sono ancora legati al sito web, fine a se stesso, mentre tutto ciò che rappresenta l’evoluzione della comunicazione digitale si sta facendo strada molto faticosamente nel tessuto imprenditoriale italiano. Le aziende hanno ancora molte difficoltà a capire l’importanza di un fenomeno chiamato “reputazione on line”: il passaparola in rete, le recensioni, le opinioni lasciate su blog, forum, social network sono in grado di influenzare le scelte di acquisto di una vastissima platea di potenziali clienti. Una delle parole chiave di questo nuovo, rutilante mondo digitale, è probabilmente la meno considerata e compresa: “ascolto”. Il web, i social network sono un’immensa platea parlante, le cui parole sono fonte preziosissima di informazioni per le aziende. Informazioni importanti che ci permettono di conoscere i nostri utenti (e potenziali clienti), di capire le loro esigenze, i bisogni non soddisfatti, gli umori. Porsi in posizione di ascolto è la chiave di volta della comunicazione on line. Ed è uno dei concetti più difficili da trasmettere al cliente.
L’inizio della tua carriera da digital strategist è segnato dall’inizio di una collaborazione con un noto personaggio pubblico, collaborazione che procede ancora oggi ininterrottamente. Come sei riuscita a “catturare” un cliente così importante?
Feci quello che nel 2006 ancora si poteva fare: registrare domini senza rischiare di finire in tribunale.
Ero una grande fan di Pierfrancesco Favino, attore ancora emergente in quegli anni (l’espressione “Favino chi?” mi ha accompagnata per molto tempo a seguire).
Una sera vidi un servizio al telegiornale in cui si annunciava la presentazione di un suo film al Festival del Cinema di Roma. Volevo sapere quando il film sarebbe uscito nelle sale, ma non riuscii a trovare nulla on line: sembrava che nessun sito di cinema riportasse questa informazione per me così importante. Così pensai «ma Favino ce l’avrà un sito in cui pubblicare le notizie che lo riguardano?».
No. Non ce l’aveva. E il dominio non risultava nemmeno registrato. Quindi al grido di “eureka!” sfoderai la mia carta di credito alle due di notte, credendo di aver avuto l’idea del secolo: «se il povero Favino non ha un sito, glielo faccio io!». Facile, no?.
Pochi giorni dopo, la prima versione del sito pierfrancescofavino.it era pronto, comprensivo di un doveroso disclaimer (“unofficial”) e una pagina contatti dove avevo inserito una serie di FAQ ironiche riservate all’avvocato di Pierfrancesco, che avevo scritto nella speranza di intenerirlo qualora avesse scoperto il misfatto.
Ci volle però una lettera cartacea, inviata in gran segreto da una mia amica, per fargli scoprire che qualcuno, da sei mesi, portava avanti un sito di news e un forum a lui dedicato, dove tutti i fan si erano raccolti. Quando finalmente scoprì il progetto, ma soprattutto quando lesse la pagina con tutte le mie giustificazioni, rise così tanto che non gli rimase da fare altro che contattarmi, chiedermi un incontro e stabilire che quella scritta “unofficial” venisse rimossa al più presto.
La collaborazione è iniziata così, e prosegue ormai da dieci anni. Il sito ha avuto diverse evoluzioni (ce ne sarà una nei prossimi mesi, a cui stiamo già lavorando) per adattarsi all’arrivo dei nuovi standard, sono arrivati i social network e la creazione dei diversi profili, la gestione dei contatti con i fan e tutto ciò che ruota attorno alla sua presenza online. Il digitale evolve, e noi evolviamo con lui.
Qual è la parte più divertente dell’avere a che fare con questo tipo di cliente?
Mi piacerebbe dire che sia la frequentazione del “dietro le quinte” del mirabolante mondo del cinema e della televisione (che mi ha permesso di conoscere Enzo Jannacci poco prima della sua scomparsa). In realtà, mi appassiono moltissimo alle storie che scaturiscono dalle mail che riceviamo dai fan. Storie di ogni tipo, richieste a volte improbabili (“Pierfrancesco, ho scritto questa sceneggiatura di 8.458 pagine: quando hai un attimo potresti leggerla e darmi un tuo parere? Possibilmente entro la settimana prossima, grazie”), attestati di stima, ma anche storie di disperazione, di persone che chiedono una parola di conforto. C’è un mondo, là fuori, che chiede di essere ascoltato, e lo fa anche attraverso le pagine pubbliche di un personaggio famoso.
«mi appassiono moltissimo alle storie che scaturiscono dalle mail che riceviamo dai fan. Storie di ogni tipo, richieste a volte improbabili, attestati di stima ma anche storie di disperazione, di persone che chiedono una parola di conforto. C’è un mondo, là fuori, che chiede di essere ascoltato, e lo fa anche attraverso le pagine pubbliche di un personaggio famoso».
Prendo a prestito un’altra tua citazione: “Salumiere 2.0: la filosofia del parla come mangi”. Hai una tua strategia personale per rendere digeribile la comunicazione social a clienti totalmente digiuni e impreparati?
Nello svolgere la mia attività mi è subito risultato chiaro come per i miei clienti fosse difficilissimo capire il mondo del digitale e quali fossero gli interventi necessari al loro business. Passato il momento in cui tutti avevano metabolizzato il fatto che “c’è bisogno di un sito”, si è poi arrivati al “ho fatto fare un sito, ho speso anche molto denaro: non è sufficiente?”. No, non lo è.
Ho quindi deciso di avere un approccio decisamente pragmatico con i miei clienti: mi metto nei loro panni e penso a come potrei sentirmi se qualcuno mi parlasse di SEO, content marketing, AdWords, algoritmo di Facebook. Al loro posto mi verrebbe un gran mal di testa. Ho perciò deciso di porgere loro un analgesico e di provare a tradurre in termini più basici e comprensibili la filosofia che sta dietro il mio intervento. Se il cliente capisce cosa faccio e perché lo faccio, sarà un buon cliente che mi metterà in grado di lavorare nelle condizioni migliori. E sarà un cliente soddisfatto in grado di valutare il mio servizio e di pagare il giusto prezzo. Si tratta di un approccio che richiede molto più tempo e fatica, ma ritengo che una platea alfabetizzata e formata sia la platea migliore dalla quale partire per lavorare bene: ecco perché molta parte del mio lavoro consiste nel realizzare corsi di formazione sulla comunicazione digitale, soprattutto presso le aziende. Corsi che permettano alle aziende di capire il momento storico in cui ci troviamo, che permettano di capire quali sono le cose importanti a cui prestare attenzione, perché non ha senso dire “sui social network non ci vado perché non voglio che la gente parli male della mia azienda”, perché i dipendenti possono diventare un strumento prezioso della comunicazione aziendale, anche grazie ai loro profili privati sui social network. Poco tempo fa ho ricevuto una mail che recitava così: “La volevo ringraziare per come ha tenuto il corso di formazione sul Personal Branding. Ho apprezzato le nozioni utili e soprattutto il modo con cui è riuscita a catturare l’attenzione e a focalizzarla sui concetti chiave. Spero di farne tesoro e applicarla quotidianamente nel mio percorso professionale”.
Messaggi di questo tipo mi fanno capire che la direzione è quella giusta, che ha davvero senso scendere dalla cattedra e prendere per mano le persone.
“La pazienza non è il mio forte” (cit.). Ci si può realmente spazientire in un mercato dove i clienti spesso non sanno, ma sono convinti di sapere?
Assolutamente sì! Ma il problema non è solo prerogativa del nostro settore. Ricordiamoci che il lunedì siamo tutti allenatori, e anche sul web siamo tutti smanettoni.
Sei presente nel libro “Donne di business” e hai vinto diversi premi in ambito digitale (come il premio Web Italia per il copywriting): ti senti davvero una donna di business?
Più che altro mi sento una donna che fa un lavoro che le piace molto: credo sia uno dei traguardi più difficili da raggiungere nella vita. Il prossimo traguardo prevede di diventare schifosamente ricca.
«Un’attività che mi ha permesso di ritrovare una dimensione ridotta e meno caotica: poter frequentare il quartiere che mi ha visto crescere, San Zeno, fermarmi in un bar per un caffè e rispondere a qualche email, guardare fuori dalle vetrate e trovare ispirazione osservando le persone passeggiare, prenotare un albergo in un’altra città dove andrò a conoscere nuove realtà».
Qual è il tuo rapporto con Verona, dopo tanti anni passati a Milano? Può una social media manager sopravvivere lontano dall’unica metropoli italiana per quanto riguarda il web e le nuove tendenze?
Sì, si può vivere lontano da Milano. Conoscendo bene i meccanismi del digitale, non posso che essere una fan dello smartworking (che nulla ha a che vedere con il telelavoro). Posso avere clienti ovunque, gestire le loro attività da remoto e svolgerle in qualunque luogo, parlare con loro in videochat e incontrarli dal vivo solo quando è strettamente necessario.
Un’attività che mi ha permesso di ritrovare una dimensione ridotta e meno caotica: poter frequentare il quartiere che mi ha visto crescere, San Zeno, fermarmi in un bar per un caffè e rispondere a qualche email, guardare fuori dalle vetrate e trovare ispirazione osservando le persone passeggiare, prenotare un albergo in un’altra città dove andrò a conoscere nuove realtà. Un nuovo stile di lavoro (e di vita) che sta coinvolgendo sempre più anche le grandi aziende (Unicredit, Barilla…) che hanno capito che per molte professionalità non sono i fattori ‘luogo’ e ‘tempo’ a rendere efficiente un lavoratore, ma il raggiungimento dell’obiettivo, al di là del luogo di lavoro o delle fasce orarie utilizzate per farlo.
È necessario avere molta autodisciplina, ma i vantaggi sono impagabili.
Articolo: Mauro Farina Shooting fotografico: Adriano Mujelli
Si ringrazia per l’uso delle location: Hotel Corte Ongaro e la Pecoranera Verona